APPROFONDIMENTI

COP26: un accordo che non basta a salvarci dal disastro climatico

A Glasgow i 197 Paesi riuniti per rispondere alle attese mondiali sulla lotta al climate change mancano l'obiettivo sulla riduzione delle emissioni

di Davide Lamagni

Si sono conclusi lo scorso 13 novembre a Glasgow, in Scozia, i negoziati della Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (COP26): durante i 14 giorni di lavori i rappresentanti di 197 Paesi si sono riuniti per rispondere alle attese di tutto il mondo sulla lotta al climate change. Ma a volte anche gli impegni più concreti si rivelano sfuggenti.
L'accordo raggiunto non è infatti sufficiente a garantire l'obiettivo di contenimento del surriscaldamento globale e la delusione da parte dei numerosi partecipanti è stata tangibile. Così come quella del presidente della conferenza Alok Sharma, che a conclusione dei lavori, quasi in lacrime, ha comunicato il raggiungimento sì di un accordo, che porta però con sé l'enorme variazione di una postilla. Ossia, sull'uso del carbone la parola "phase out" (eliminazione graduale) è stata modificata con il termine "phase down" (riduzione graduale), questo per venire incontro ai Paesi ancora fortemente legati e interessati ai combustibili fossili, come Cina e India. 
Sharma, durante una conferenza stampa tenuta a Downing Street per fare il punto sui risultati accanto al premier Boris Johnson, ha tra le altre cose affermato di essere orgoglioso dell'accordo raggiunto e di essere "dispiaciuto" per la sensazione data al mondo di una procedura opaca, non per un epilogo che al contrario ha sottolineato di considerare positivo. Sta di fatto che quella sottile modifica alla terminologia svuota di significato e di peso l'accordo raggiunto e gli sforzi fin qui portati avanti.

Un ennesimo fallimento della politica del "bla bla bla", per dirla alla Greta Thumberg. Infatti, oltre al mancato accordo sulla decarbonizzazione, non arriveranno neanche i 100 miliardi di dollari all'anno promessi a Copenaghen nel 2009 per i paesi più vulnerabili, che come evidenziato sono quelli che più di tutti subiscono le conseguenze del riscaldamento globale, pur non essendone i diretti responsabili. Se nella prima bozza degli accordi si chiedeva di erogare questi 100 miliardi di dollari all'anno entro il 2023, adesso è stato deciso lo stanziamento di un fondo da 500 miliardi di dollari che andrà versato in cinque anni. Ma si deciderà solo in un secondo momento su dove trovare questo denaro.

Per molti economisti bisognerebbe spingere su meccanismi più semplici e diretti per impostare una redistribuzione dei contributi a livello individuale, senza delegare tutto ai rapporti tra governi. Ne è convinto Raghuram Rajan, professore di finanza presso la Booth School of Business dell’Università di Chicago, che sul Financial Times sostiene come i diritti di emissione siano una forma di diritto di proprietà nei confronti del pianeta. Più debole è l'impegno di un paese a ridurre le emissioni, più diritti rivendica. "Collettivamente - sostiene Rajan - i paesi hanno rivendicato molti più diritti di emissione di quelli che fanno bene al pianeta, e non c'è accordo su come limitare questi diritti auto-rivendicati. Invece - prosegue - è probabile che il principio del 'comune ma differenziato' venga buttato fuori dalla finestra mentre facciamo di tutto per evitare la catastrofe climatica". Secondo l'economista bisognerebbe penalizzare gli emettitori di grandi dimensioni piuttosto che tutelarli e allo stesso tempo dare a paesi più poveri l’incentivo e le risorse per crescere verdi. In che modo? Distribuendo equamente i diritti di emissione e migliorando gli incentivi a fare di più, per esempio lasciando che ogni paese che emette più della media globale di circa cinque tonnellate pro capite paghi annualmente in un fondo globale. "L'importo pagato - scrive Raghuram Rajan - sarebbe l'eccesso di emissioni pro capite moltiplicato per la popolazione e ulteriormente moltiplicato per un importo in dollari chiamato Global Carbon Incentive". 
Dopo Glasgow, quindi, anche nello scenario migliore, ossia se gli Stati dovessero fare le revisioni dei loro Ndc (Nationally Determined Contributions) in base a quanto affermato - un passaggio fondamentale per evitare di superare 1,5° C di riscaldamento rispetto all’epoca preindustriale - nel 2030 le emissioni di gas serra sarebbero comunque ancora doppie rispetto a quanto gli scienziati ritengono occorra raggiungere.

Infatti, con gli attuali Ndc, secondo il nuovo rapporto di Climate Action Tracker, non solo si supererà la soglia di 1,5° C nel giro di dieci anni, ma entro il 2100 il rischio è di arrivare a un riscaldamento di 2,4° – 2,7° C, con conseguenze catastrofiche sull'uomo e sull’ambiente. Se nemmeno di fronte agli inconfutabili dati scientifici gli Stati riescono a raggiungere un vero accordo per il bene comune, non ci resta che sperare, alla stregua di un supereroe, in Helon Musk, recentemente eletto dalla rivista Time come persona dell’anno 2021 e come "Uomo che aspira a salvare il Pianeta e a darcene un altro dove potremo abitare".