APPROFONDIMENTI

Dalla stagnazione alla reflazione, dipende tutto da Trump

Prevista una moderata nuova inflazione, ma una svolta isolazionista degli Usa rischia di rovinare la festa

Il quadro generale dello stato di salute dell’economia mondiale sembra essere, ad oggi, positivo. Un’accelerazione della congiuntura nella seconda parte del 2016 ha infatti permesso al PIL mondiale di chiudere l’anno passato in crescita di circa il 3% (anno su anno), e ha gettato le basi per un 2017 in ulteriore aumento. A sostegno della crescita, nei prossimi mesi, dovrebbero continuare ad agire a livello globale soprattutto due fattori: politiche monetarie ancora accomodanti e politiche fiscali di natura espansiva che, salvo clamorosi colpi di scena, andranno ad affiancare in maniera sempre più convinta il lavoro dei banchieri centrali. 

La parola d’ordine di questo 2017 rischia quindi di essere reflazione, termine che, dizionario alla mano, significa “moderata nuova inflazione, successiva alla deflazione, innescata dall’iniezione di una maggior quantità di moneta, che si accompagna solitamente a una ripresa economica”. E’ facile intuire come uno scenario reflazionistico, alla luce della correlazione esistente tra la crescita del PIL e altre importanti variabili macro come occupazione, investimenti e produttività, rappresenterebbe una manna dal cielo per un contesto globale in cui, è bene ricordarlo, la parola più usata fino allo scorso anno era “stagnazione”. 

Molto dipende da ciò che accadrà negli Stati Uniti, dove si gioca probabilmente la partita più rilevante per il futuro dell’economia mondiale. E non solo per l’ovvia importanza che gli Usa ricoprono all’interno dello scacchiere internazionale, ma soprattutto perché intorno alla nuova Amministrazione guidata da Donald Trump ruotano tutta una serie di incognite che, a seconda di ciò che verrà concretamente realizzato, andranno ad impattare in maniera diversa sul ciclo economico americano e, a cascata, su quello degli altri paesi. Sulla carta le sue ricette di politica economica, dalla forte impronta reaganiana, pur rischiando di provocare nel lungo periodo gravi squilibri nei conti pubblici potrebbero in effetti avere a medio termine un effetto benefico sulla crescita; gli stessi membri della Federal Reserve - la banca centrale americana - per la prima volta dalla crisi finanziaria internazionale sono sostanzialmente unanimi nel riconoscere la concreta possibilità che la crescita americana sorprenda al rialzo. Quindi, cosa può andare storto? L’adozione da parte dell’Amministrazione Usa di misure di restrizione al commercio internazionale, con tutto quello che ne consegue, e il fatto che il neo Presidente raccoglie comunque in eredità un paese che, rimessosi in carreggiata dopo la tremenda crisi finanziaria del 2007-2009, viaggia oggi con una disoccupazione ridotta ai minimi termini e Wall Street ai massimi storici. Ciò, in altre parole, significa che senza l’adozione di riforme strutturali volte all’aumento della produttività e del tasso di partecipazione nella forza lavoro, qualsiasi manovra di stimolo rischia seriamente di surriscaldare i prezzi al consumo senza incidere più di tanto su un ciclo economico che, oltre ad essere maturo, è probabilmente già arrivato al suo massimo potenziale di crescita. Non a caso, grazie anche al forte rimbalzo avvenuto nei corsi delle materie prime, che un po’ ovunque ha fatto dimenticare i tanto temuti timori di deflazione, l’indice dei prezzi al consumo Usa è arrivato oggi al livello target della Fed (2%) sia nella sua versione generale headline, che considera le variazioni nei prezzi di tutti i beni del paniere, sia in quella core, “di fondo”, misurata al netto delle componenti più volatili come gli alimentari freschi e i beni energetici.  


Al di qua dell’oceano, in Eurozona, il 2017 dovrebbe confermare il passo di moderata espansione raggiunto nel 2016, grazie ai soliti fattori esogeni: la debolezza dell’euro, gli stimoli erogati dalla BCE e la relativa economicità delle materie prime energetiche. Il fenomeno di gran lunga più evidente, però, considerati soprattutto i livelli da cui arriviamo, è la ripresa in atto dell’inflazione headline, che ha recentemente registrato un forte balzo grazie principalmente agli effetti base favorevoli legati al petrolio. A differenza degli Usa però, il fenomeno rimane tuttora scarsamente visibile a livello core, fattore evidenziato recentemente anche dal governatore Draghi, che molto probabilmente non basterà a frenare le pressioni da parte di alcuni paesi membri, Germania in testa, per una riduzione anticipata degli stimoli. La Germania, oggi, è il paese che sta meglio di tutti all’interno dell’area euro, tanto che gli indicatori anticipatori prospettano un’ulteriore accelerazione dell'attività produttiva, con la fiducia di famiglie e imprese che si mantiene sostenuta. Il maggior grado di utilizzo degli impianti rispetto agli altri paesi, poi, sta favorendo una risalita dell'inflazione più rapida, fattore che va ulteriormente a “gettare benzina” sulle polemiche accennate in precedenza. Se da un lato la Germania gode di buona salute, dall’altro il fanalino di coda dell’Eurozona (Grecia esclusa) rischia di essere, in termini di crescita 2017, l’Italia, dove negli ultimi mesi si è sì consolidato qualche segnale positivo - come un discreto aumento, indotto dalla debolezza dell'euro, degli ordinativi esteri nel settore manifatturiero - ma dove i consumi rimangono ad un livello abbastanza depresso a causa di una crescita salariale ai minimi storici (e che lo scorso anno ha spinto l’inflazione in territorio negativo per la prima volta dal 1959). 

Meritano un’analisi anche i paesi Emergenti, ormai sempre più protagonisti all’interno dello scenario economico mondiale. Il recupero e la successiva stabilizzazione dei prezzi delle materie prime ha sicuramente giocato un ruolo determinante nel migliorare le prospettive di crescita di tanti paesi in via di sviluppo, e dovrebbe fornire la spinta decisiva per far riemergere dalla recessione due importanti economie quali quella russa e brasiliana. Anche dalla Cina, il cui stato di salute dell’economia in questi ultimi due anni ha preoccupato gli analisti e gli investitori, arrivano confortanti segnali di stabilizzazione; il prossimo autunno, poi, è previsto il quinquennale Congresso del partito comunista. C’è dunque da scommettere che ogni tipo di polvere verrà accuratamente nascosta sotto il tappeto e che gli obiettivi di crescita saranno perfettamente centrati o battuti.

Ma quali possono essere le principali incognite su questo quadro macroeconomico globale? La maggiore è senza dubbio legata alla nuova Amministrazione Usa: da subito, in maniera ottimistica, analisti e investitori si sono focalizzati sulle manovre growth-friendly promesse dal magnate americano in campagna elettorale, quali le politiche fiscali espansive, il piano di investimenti in infrastrutture, e una rinnovata “deregulation” in diversi settori chiave dell’economia come il finanziario o l’energetico. Non è da escludere, però, e le recenti esternazioni di Trump paiono suffragare tale ipotesi, una decisa inversione di rotta nella politica commerciale statunitense, cosa che a livello di congiuntura globale rischierebbe di provocare ingenti danni.

Una svolta isolazionista da parte degli Usa causerebbe infatti una maggiore e generalizzata incertezza, avrebbe implicazioni sulle politiche monetarie, fiscali e valutarie di molti paesi e, a seconda delle misure specifiche intraprese, potrebbe alimentare possibili misure di ritorsione o addirittura provocare vere e proprie guerre commerciali e valutarie. Difficile pronosticare se questa alzata di scudi finirà con il concretizzarsi davvero; tuttavia, visto il peso delle grandi lobby industriali e finanziarie che si opporrebbero con forza a misure per loro penalizzanti, la realizzazione di politiche commerciali troppo aggressive pare altamente improbabile. Più importante, forse, superato l’impatto iniziale della vittoria a sorpresa di Trump, sarà capire quale equilibrio si creerà nei prossimi mesi con gli altri grandi attori economici internazionali, in particolare con paesi di rilevante importanza strategica come Cina o Russia. 

L'America non rappresenta però l'unica fonte di rischio per l'economia globale. In Europa, infatti, nel 2017 sono previste tornate elettorali in paesi di primaria importanza: Olanda, Francia, Germania e, con ogni probabilità, Italia. Risultati destabilizzanti, di matrice marcatamente euroscettica, potrebbero far sorgere seri dubbi sulla tenuta dell’intera unione monetaria, mettendo a dura prova, per l’ennesima volta, la rete di protezione imbastita dalla banca centrale europea.