APPROFONDIMENTI

Finanza, politica e lobby sono davvero poteri così forti?

Ferruccio de Bortoli racconta 40 anni di carriera giornalistica tra reportage, personaggi e cronache. Riflessioni anche sull’Italia

di Marcello Floris

Un’intensa attività di redazione ma anche decisioni importanti, linee editoriali e posizioni non sempre facili da prendere. Cronista dagli anni Sessanta, la direzione del Corriere della Sera e de Il Sole 24 ORE i punti più alti di una carriera quarantennale. Ferruccio de Bortoli ripercorre vizi e virtù del Belpaese ma riflette su quali sono le responsabilità dei media, che dovrebbero sensibilizzare le masse e redarguire i potenti. Uno sguardo al recente passato dell’Italia e del mondo, considerazioni sul presente, un’occhiata al futuro con un po’ di ottimismo e alcune idee su come poterci risollevare ripartendo dalle nostre (tante) risorse.
Poco più di un anno fa il suo libro Poteri forti (o quasi) ha fatto da raccoglitore a questi quarant’anni. Una frase di questo volume spiega in modo chiaro e diretto proprio quale grande missione debba avere il giornalismo in una vera democrazia: “Una classe dirigente responsabile affronta per tempo e al meglio i problemi seri che un giornalismo di qualità solleva. Certo, è scomodo, irritante. Qualche volta apparentemente dannoso. Ma quanti sono i danni di ciò che non abbiamo saputo o non abbiamo voluto vedere. Un buon giornalismo, in qualunque era tecnologica, rende più forte una comunità. Quando tace o deforma, la condanna al declino. Negli ultimi anni in Italia, salvo poche eccezioni, è successo esattamente questo”. 

De Bortoli, i principali istituti di ricerca ci tengono sempre lontani dalle prime posizioni per libertà di stampa al mondo. È così difficile scrivere la verità da noi? Perché?
“Per essere precisi nell’ultima classifica sulla libertà di stampa abbiamo recuperato diverse posizioni, anche se non credo molto a queste graduatorie perché l’idea, per esempio, che il Burkina Faso - con tutto il rispetto - abbia un livello di libertà di stampa superiore al nostro mi lascia un po’ perplesso. In ogni caso un problema esiste. Il ventennio berlusconiano, l’eccesso di cause civili e penali contro la stampa non hanno certamente contribuito a innalzare il nostro ranking. Ma quello che temo di più è il conformismo del racconto nazionale. L’occuparci ossessivamente di un tema (il privato di Berlusconi, per esempio) tralasciandone altri”.

Ci sono però molte colpe imputabili direttamente al giornalismo stesso…
“Certamente. Molti di noi sono ormai parte della scena che dovrebbero descrivere. Tra i nostri difetti c’è anche quello di muoversi in branco. Dovevamo parlare di più del debito e della sostenibilità dei nostri conti pubblici. Per tempo, non ora. Dovevamo parlare di più e meglio della crisi bancaria, prima del bail in. Dovevamo parlare di più anche del grande malessere di chi si sente escluso dalla globalizzazione prima delle elezioni, della povertà crescente nel nostro Paese prima della proposta di un reddito di cittadinanza. Ma credo, comunque, che in Italia vi sia un buon giornalismo, corretto e indipendente, che non ha nulla da invidiare ai migliori modelli stranieri”.

In tanti anni da direttore di due dei maggiori quotidiani nazionali, il Corriere della Sera e Il Sole 24 ORE, ritiene di essere sempre riuscito, nel complesso, a “resistere” alle pressioni del potere?
“Penso di sì e credo di averne pagato un prezzo. Tuttavia, avrei dovuto essere più coraggioso, più scomodo. E ammettere errori e omissioni che non sono mancati. Specialmente in un Paese che ritiene l’informazione un male necessario, un fastidio pubblico, un’incombenza dalla quale tentare di sottrarsi. La trasparenza è considerata una formalità costosa e inutile. Invece è l’essenza di una democrazia compiuta, che individua nella qualità della pubblica opinione l’architrave di uno stato di diritto. Laddove non c’è buona informazione, tutto è opaco, non c’è riconoscimento del merito, c’è arbitrio dei peggiori, prepotenza, furbizia, criminalità. Non si discute mai dei costi della non informazione. Non interessa a nessuno. Questo è il dramma”.

Parliamo di attualità. È emerso anche di recente il tema del peso e della capacità della finanza, con le sue agenzie di rating, gli spread, la borsa, ecc., di condizionare in modo determinante le scelte della politica. Qual è il suo punto di vista?
“Le rispondo con nettezza: non credo alla leggenda del complotto internazionale che mandò a casa Berlusconi nel 2011. Quel governo ci aveva portato sull’orlo del disastro finanziario e aveva perso la maggioranza in Parlamento. Condividendo la moneta unica con noi, altri Paesi si sono preoccupati per la nostra stabilità. Avremmo fatto lo stesso anche noi a parti invertite. Quello che non passa è un ragionamento molto semplice. Lo capiamo per un cittadino, una famiglia, ma non per lo Stato. Chi ogni anno ha necessità di reperire sul mercato 400 miliardi di euro deve dimostrare di essere serio e solvibile. E di conseguenza è meno libero”.

La finanza ha influenzato anche le manovre per la formazione dell’ultimo governo. Il nuovo esecutivo che rapporto avrà con essa?
“Con la fine annunciata del Quantitative easing della Banca centrale si chiude un ombrello monetario che ci ha consentito di risparmiare decine di miliardi di euro di interessi passivi sul nostro debito. Ora il governo dovrà stare ancora più attento a non mettere a repentaglio i nostri conti pubblici. I mercati saranno ancora più sensibili, severi, e dovremmo collocare i nostri titoli cercando di limitare il premio al rischio richiesto dagli investitori. Non sono nemmeno trascurabili i problemi di liquidità sul mercato secondario dei titoli di Stato. Forse avremo maggiore flessibilità da parte di Bruxelles ma non sufficiente da consentire l’attuazione anche di una parte del programma di governo. Occorrerà pragmatismo e buon senso. Temo avventurismo, protervia e improvvisazione”.

Dopo i terremoti di questi anni sul sistema bancario, vede un orizzonte di maggiore stabilità?
“La crisi è stata ampiamente sottovalutata, anche dal sistema bancario, nel quale a volte ho visto forme di omertà preoccupanti. Il fatto di essere regolati non fa venir meno la necessità, il dovere morale di denunciare pratiche sbagliate in danno ad azionisti e depositanti. Di non condividere poltrone associative con chi non le merita. Il conformismo ha fatto male anche alle banche. Il sistema comunque ha reagito. Le sofferenze sono diminuite, le garanzie cresciute. La redditività di alcuni istituti intermedi è però insufficiente e insostenibile nel tempo, specie tenendo conto del volume di investimenti necessario per affrontare la sfida del fintech”.

Il ruolo dell’Unione Europea, sotto vari aspetti - sia politici che finanziari - è stato al centro dell’ultima campagna elettorale. Che atteggiamento dovrebbe avere il governo in carica e su cosa dovrebbe premere in sede UE, prima di tutto?
“L’Unione europea è un processo necessario rimasto a metà. E non per colpa nostra. Ritornano egoismi nazionali, vecchi pregiudizi, riemergono fantasmi ideologici del Novecento. Sarei più preoccupato del deteriorarsi dei valori di libertà e tolleranza che dell’andamento dei bilanci nazionali. Più del nazionalismo e dell’antisemitismo crescenti in Polonia e Ungheria che dello sforamento dei criteri del patto di stabilità. L’Europa ha smesso di parlare ai giovani, di suscitare entusiasmi. Con il solo compromesso sugli interessi economici non si va molto lontano. Occorre un nuovo spirito di Ventotene. Purtroppo anche l’Italia, con questo governo si avvicina al grumo nazionalista di Visegrad, nella suggestione dell’uomo forte alla Putin”.

L’anno scorso affermò che la Francia va meglio dell’Italia perché “ha uno Stato forte, che si identifica con la nazione stessa, mentre da noi lo Stato è qualcosa di estraneo e ostile”. Qual è l’origine di questa sofferenza?
“La Francia ha un sistema elettorale e istituzioni più forti. E ha una classe dirigente più omogenea e responsabile. Veri poteri forti. La somma delle preferenze a candidati populisti e antieuropei, al primo turno delle elezioni presidenziali dell’anno scorso, fu del 49 per cento. Da noi governano. A Parigi c’è invece Macron che al primo turno prese meno della metà degli avversari dell’Europa. È vero che sul deficit la Francia è da tempo fuori dai limiti, ma ha un debito che non preoccupa e grazie all’asse con la Germania - il peso politico conta - ha uno spread risibile. Comunque l’anno scorso noi abbiamo esportato più di loro”.

Burocrazia, giustizia lenta, ma soprattutto corruzione ed evasione fiscale: riusciremo mai a liberarci di questi mali cronici?
“La domanda sembra quasi un grido di dolore. Della corruzione cominceremo a liberarci quando, al di là delle pene che non si scontano specie per i colletti bianchi, si pagherà un prezzo elevato in termini di perdita di reputazione. Oggi chi corrompe viene scusato e riammesso in società, chi evade compreso perché ritenuto in stato di necessità. Non c’è sanzione sociale nei confronti di chi corrompe o di chi evade, non raramente persino una sottile ammirazione”.

Abbiamo visto un po’ di “vizi” di questo Paese, ma probabilmente ha anche tanti punti di forza. Secondo lei da dove dovrebbe ripartire? Quali sono le sue virtù?
“La ringrazio per questa domanda. Noi abbiamo uno straordinario capitale sociale, un volontariato cattolico e laico che all’estero non hanno, tantissime persone che aiutano gli altri, spesso senza volerlo far sapere. Un tessuto di buone relazioni che ha rappresentato un formidabile ammortizzatore sociale negli anni della nostra doppia recessione. Bisogna puntare su quello, sulla buona predisposizione italiana al lavoro e alla solidarietà. Dovremmo esserne fieri”.

Torniamo al suo libro e agli episodi relativi ai suoi 40 anni di carriera. Lei era già giornalista durante gli anni di piombo, il crollo del muro di Berlino, l’11 settembre. Ci sono stati fatti particolarmente difficili da raccontare, o pezzi di cui è andato particolarmente fiero?
“Nel mio libro ho raccontato quarant’anni di professione. Riconoscendo prima di tutto alcuni errori, per esempio non ho combattuto il maledetto difetto di un giornalismo fatto di troppi cantori e troppi pasdaran. Ho combattuto poco la tendenza conformista e cortigiana della professione. Non siamo stati capaci di restituire la dignità perduta alle persone coinvolte ingiustamente in processi troppo lunghi. Ma di pagine di cui essere fieri ve ne sono diverse. La denuncia delle leggi ad personam, le tante inchieste sulle deviazioni del potere economico e politico. Dicemmo no alla guerra in Iraq, isolati. E l’elenco potrebbe continuare”.

Tra i “ritratti”, alla fine del libro, descrive ben quattro uomini di Chiesa: il cardinale Martini e gli ultimi papi. Tutti personaggi di altissimo livello che lei conosce approfonditamente. Che evoluzione ha visto nella Chiesa di questi tempi ? Può rivestire ancora un ruolo determinante nella società odierna?
“Ho avuto il privilegio di incontrare tre papi. Di pubblicare come editore l’ultimo libro di Giovanni Paolo II, di intervistare Francesco. La Chiesa ha molti difetti, a volte sembra insidiata e piegata da troppe lotte di potere, incapace di rispondere a una secolarizzazione che espelle il concetto di sacro dalla nostra vita quotidiana. Ma oggi, ancor più di altre fasi della storia, le domande sul senso della vita, sul trascendente, risuonano nelle nostre teste, assediano i nostri pensieri, interrogano le nostre coscienze. Il Vangelo è nella sua sorprendente modernità, nella sua semplicità espressiva, particolarmente adatto alla comunicazione sui social network. Beh, se volete anche questo è un segno dell’attualità del pensiero cattolico. Il problema è che qualcuno ascolti e rifletta. Martini fu un padre comprensivo e attento soprattutto verso coloro che la fede non l’avevano. Insegnava la virtù dell’ascolto e dell’attenzione agli ultimi che non sono mai gli scarti della società. Ci manca anche per questo”.