CULTURA

Jonathan Bazzi: grazie a "Febbre" ho ricostruito la mia identità

La scoperta dell'Hiv, le difficoltà di crescere in periferia e il confronto con la propria omosessualità. Ecco il racconto del finalista del Premio Strega 2020

di Davide Lamagni

"Tre anni fa mi è venuta la febbre e non è più andata via". Inizia così "Febbre" (Fandango Editore), il romanzo di Jonathan Bazzi, 35enne di Rozzano, nell'hinterland milanese, finalista del Premio Strega 2020. Un libro autobiografico che spazia dalla scoperta dell'Hiv alle difficoltà di crescere in periferia, confrontandosi con la propria omosessualità in una famiglia poco disposta al dialogo. Tra le pagine si scorge, a colpi di flashback, la ricerca ostinata della radice dei propri mali: "Ho fatto quello che tendenzialmente mi viene naturale, ossia scrivere, cercando un senso nello sguardo, positivo o negativo, degli altri".

Jonathan, com'è nata l'idea di scrivere un libro e, più in generale, qual è il suo rapporto con la scrittura?
"Ho sempre avuto molti interessi, tra cui quello per la musica, il canto, lo yoga. Ho studiato arte e mi sono laureato in filosofia. La scrittura narrativa si è affermata nel corso degli anni, soprattutto intorno ai 28-30, sui social. Usavo Facebook come piattaforma editoriale: postavo racconti su scene, situazioni, incontri, personaggi, legati alla vita di tutti i giorni. Da lì ho iniziato a collaborare per alcuni magazine e testate online. Ma avevo il desiderio di scrivere in modo più ampio e strutturato di Rozzano, il paese alla periferia sud di Milano, dove ho vissuto i primi trent'anni della mia vita. Un pensiero rimasto in sospeso fino 2016-2017, quando mi sono trasferito in centro e mi è venuta questa febbre… Il confronto e l'intreccio di queste due caratteristiche, fisica e ambientale, ha dato vita al mio racconto".

E' cresciuto a Rozzano, l’hinterland che fa da panorama al suo romanzo, ma come riporta nella pagine del libro "non so menare, leggo, scrivo, balbetto, mi piacciono i maschi". Com'è stato crescere lì?
"Rozzano è un po’ la mia carta d’identità, ma per molti aspetti rimane viva una relazione di incompatibilità. Come racconto nel libro è un paese piccolo, all'estrema periferia sud di Milano, costruito in mezzo alla campagna che costeggia il Naviglio. Un posto da cui vengono un sacco di rapper, baby gang e infiltrazioni mafiose. Un po' il Bronx del nord: il paese dei tossici, degli operai, degli spacciatori. Crescere lì non è stato facile, perché sono portatore di alcune caratteristiche che in un paese come quello sono viste come anomalie".

Da esordiente a finalista del Premio Strega. Che effetto le ha fatto?
"Dire che è stato sorprendente è un eufemismo, l’ho vissuta con un senso di irrealtà. Il fatto che la nomina abbia coinciso con l’inizio del lockdown e che il primo incontro con gli organizzatori del Premio si sia svolto a distanza ha acuito questa sensazione. Quando poi sono entrato nella sestina ho dovuto fare i conti anche con i risvolti dell’esposizione mediatica: lì mi sono reso conto che stava accadendo qualcosa di importante".

Che febbre è quella che racconta e che dà il titolo al libro?
"Il titolo è stata un'intuizione della casa editrice Fandango, mentre la copertina l'ho scelta io ed è opera di Elisa Seitzinger, una giovane illustratrice torinese. La narrazione del libro non segue un ordine cronologico degli eventi, ma inizia proprio con l’arrivo di questa febbre, che dal punto di vista del fenomeno fisico dura alcune settimane, ma in ottica metaforica estende il significato principale a un meccanismo di difesa del corpo da un tentativo di assedio. Diventa qualcosa in grado di abbracciare tutte le storie raccontate dal secondo capitolo in poi".

Dopo quello sull'omosessualità, si può dire che quello sulla sieropositività sia stato un secondo coming out. Si tratta di passi importanti della sua vita in cui ha avuto coraggio. Come li ha vissuti?
"Non sento di essere stato coraggioso. Ho intrapreso questa strada già dal 2016, con un articolo pubblicato su Gay.it. L'ho fatto perché, nel momento della scoperta di questa diagnosi, ho sentito un vuoto di senso: non riuscivo a capire cosa avrebbe significato per me diventare ed essere sieropositivo, visto che si tratta di un'identità, di un'etichetta che si porta dietro forti suggestioni, spesso non positive. Una caratteristica che sembra dover dire a tutti i costi qualcosa di te, in grado di rinominarti e reidentificarti. Ho quindi fatto quello che tendenzialmente mi viene naturale, ossia scrivere e fare di questo aspetto un oggetto condiviso, cercando un senso nello sguardo, positivo o negativo, degli altri".

Una forma di scrittura consolatoria…
"In parte sì, perché ho trovato nelle parole dirette alle esperienze narrate nel libro una carica vitale, di autointrattenimento, di piacere nello sprofondare nel racconto di una materia che sembrava essere riposta nell'archivio delle cose sbagliate. Consolatoria nella possibilità di mettere in connessione la mia personalità e questa caratteristica, che è sempre raccontata dall'esterno, e nella possibilità di rivendicare uno sguardo su questi temi".

Nel libro ne tratta molti: dall'omosessualità alla sieropositività, dal contrasto alla violenza sulle donne all'emancipazione di chi si sente diverso, fino alla sostenibilità. Che messaggio ha voluto mandare?
"Più che un messaggio, c’era il bisogno, la sfida, di portare lo sguardo verso una serie di questioni che sono frequentemente ammantate da varie forme di rimozione, di omertà, di assenza di rappresentazione, quasi di invisibilità. Da qui anche la scelta dell’immagine della copertina, intesa come offerta di un punto di vista".

Di quei bambini invisibili a cui è dedicato il libro. Chi sono?
"Esatto. Si può pensare all'offerta di un punto di vista di quei bambini che sono invisibili a chi dovrebbe vederli e prendersene cura e invece sono costretti a vivere situazioni che non sono a loro misura. Nel libro tratto anche il tema della violenza domestica, che non viene esercitata direttamente su di loro, ma che i bambini vedono compiere sulle figure affettive di riferimento. Un tipo di violenza che lascia crepe, segni indelebili che creano un cortocircuito nell'idea di sé: fratture insanabili tra il maschile e il femminile. È un tema di cui si parla molto poco, ma l’effetto indiretto che questo tipo di violenza provoca, e su che tipo di adulti genera, è enorme".

La sua sembra una presa di coscienza sulle contraddizioni del mondo d’oggi. Quanto è importante essere se stessi e riuscire a levarsi di dosso le "etichette"?
"È importante provare a incrociare e sovrapporre le proprie caratteristiche con le cosiddette etichette. Credo molto in un lavoro continuo di ricodificazione, di aggiornamento, di appropriazione delle etichette. Le definizioni rispondono a un bisogno primario, che è quello di nominare e fermare le cose, ma la tentazione è di farlo troppo a lungo, quindi di cristallizzare. Credo invece molto nell'importanza di metterle in discussione per ampliare l'immaginario, dando sempre più ospitalità a declinazioni diverse".

In questo sente di avere una responsabilità? 
"Sì, un po’. Viviamo in un periodo in cui le posizioni si polarizzano e si scontrano in modo frontale, spesso tralasciando le sfumature, i passaggi intermedi. Mentre la narrativa, la letteratura, si muove proprio lì, nelle contraddizioni. È per questo che da una parte cerco di farmi carico di questo tipo di interpretazioni e di letture più sociali e politiche, cercando però di non fermarmi e di non eliminare la possibilità di esplorare dell’altro. Cosa che invece non fa la politica o l’attivismo. C’è una differenza tra queste dimensioni e trovo sia sfidante tenere conto delle richieste del mondo di oggi, che sono molte e diverse rispetto a quelle dei decenni passati".

Con il passare del tempo sembrano però non mutare mai i sentimenti di odio e intolleranza. Da dove nasce quel bisogno di umiliare l'altro? Spiegare l'odio è un po' come provare a spiegare l'amore, è impossibile?
"Impossibile da spiegare nel senso che è molto più facile fornire degli esempi, perché si tratta di esperienze essenziali, basilari dell’essere umano. I mezzi di comunicazione di oggi, soprattutto i social, hanno fornito a certe pulsioni strumenti di visibilità maggiori. Ma quello che si vede al loro interno è semplicemente la materializzazione di aspetti che hanno a che fare con il desiderio. Tutte le forme di umiliazione, di tentativo di abbassare l'altro, sono dei risultati di desideri che non trovano risposta, accoglienza, che non sono esauditi. È quindi molto complicato, soprattutto perché i social tendono sempre ad alzare i toni. Anche chi si oppone a certi fenomeni adotta spesso toni molto accesi e di ribaltamento della gogna, del "shitstorm", reimmettendo in circolo dei sentimenti di contrapposta ostilità. Il tutto con un effetto psicologico ed emotivo spossante".

Una soluzione?
"Credo sempre più nella pratica di sospensione dei giudizi. Dovremmo provare a resistere alla reattività instillata dai social, in cui regnato le performance nette, istintive, cercando di coltivare un po' di più i dubbi. Bisognerebbe tornare all'epochè, a quella che in filosofia è la sospensione del giudizio e dell’assenso, di messa tra parentesi delle letture immediate, che sono performanti, ma ci appiattiscono su una dimensione poco progettuale e costruttiva, per niente proiettata verso il futuro".

Parliamo di diritti civili. In Italia c'è ancora molta strada da fare…
"Viviamo in un paese che si porta dietro forme tradizionali che sono più forti rispetto ad altri. Certo, anche in Italia abbiamo fatto dei passi in avanti, anche se non risolutivi - vedi la Legge Zan approvata alla Camera nelle scorse settimane - che possono però creare dei presupposti per degli altri passi che sarebbero necessari. Anche se alcuni sembrano ancora irrealizzabili...".

A cosa si riferisce?
"Sarebbe necessario introdurre nelle scuole nuove forme di educazione: ad esempio sull'orientamento sessuale, sull'identità di genere e sulle questioni legate all'identità etnica. Attività che al momento sembrano però impensabili, perché si scontrano con le famiglie, quelle tradizionaliste, che blindano qualsiasi tipo di aggiornamento delle sensibilità. Stiamo facendo dei passi avanti, ma rimangono vivissime le spinte contrarie: alcuni partiti politici, che oggi godono di ampio consenso, hanno su questi temi un approccio e una visione opposta. È tutto molto complesso".

Progetti in cantiere?
"In queste settimane, oltre a scrivere articoli per Domani, su magazine e periodici, mi sono dedicato alla scrittura di brevi racconti su K, la nuova rivista di letteratura de Linkiesta. Ma soprattutto mi sono immerso di nuovo nella stesura del prossimo libro, che avevo iniziato alla fine del 2019, ma che per "colpa" dello Strega avevo interrotto. Sarà edito da Mondadori e uscirà nella seconda metà del 2021".