SOCIETA'

Berengo Gardin: "La fotografia come nuova forma di rinascita"

Allievo di Willy Ronis, ha raccontato attraverso numerosi reportage l’evoluzione dell’Italia degli ultimi sessant’anni

di Davide Lamagni

Gianni Berengo Gardin, 87 anni, non avrebbe bisogno di presentazioni. È infatti uno dei più noti fotografi e fotoreporter italiani. “Berengo”, com’è abituato a rispondere al telefono, conosce bene il Bel paese (ma anche una buona parte di mondo): con la sua Leica l’ha fotografato in lungo e in largo per oltre sessant’anni. Ha pubblicato più di 250 libri e raccontato per immagini il passaggio dall’Italia contadina e post bellica a quella industriale. Per i suoi lavori lo si potrebbe quasi definire un sociologo della fotografia. Qualche settimana fa ho raccolto materiale per un articolo sui quarant’anni dall’approvazione della cosiddetta legge Basaglia, che abolì i manicomi, ossia gli ospedali psichiatrici in cui venivano rinchiuse le persone con disturbi mentali, restituendo loro un diritto di cittadinanza e, soprattutto, una dignità. Documentandomi sono incappato proprio in alcune fotografie di Berengo Gardin scattate alla fine degli anni ’60, insieme a Carla Cerati, all’interno di un manicomio. Da quelle immagini nacque un libro, “Morire di Classe” (1969), che mostrava a tutti cosa volesse dire essere chiusi in un ospedale psichiatrico.

Berengo, lei in quegli anni conobbe personalmente Franco Basaglia.
Sì, molto bene. Era una persona eccezionale. Lo dimostra il progetto che portò avanti. A distanza di 40 anni, nonostante le discussioni e i tentativi di revisione, la legge 180 è ancora in vigore e regola l’assistenza psichiatrica del nostro paese. Per lui io e Carla Cerati fotografammo alcuni manicomi italiani.

Come nacque il progetto?
Carla doveva fare delle foto per L’Espresso e mi chiese di accompagnarla. Partimmo inizialmente da Gorizia per poi spostarci in altri luoghi. Le fotografie che scattai per quel progetto non mostravano la malattia, ma le condizioni in cui erano tenuti i malati di mente: talmente disumane da offendere e umiliare la dignità di quelle persone. Basaglia rimase entusiasta degli scatti, così gli proposi di farne un libro per Einaudi, “Morire di Classe”, oltre che, naturalmente, darle all’Espresso.

Facciamo un passo indietro, a Santa Margherita Ligure, sua città natia.
Sono nato per caso a Santa Margherita Ligure. Lì mia mamma gestiva un importante albergo. Un giorno arrivò mio padre, veneziano, per una regata. Dall’incontro tra i due nacqui io. Poi, dal 1937 al 1945, ci trasferimmo a Roma.

In quegli anni la capitale visse momenti difficili...
Gli anni della guerra furono terribili, ma quando si è ragazzini non si vede e non si capisce fino in fondo il lato brutto delle cose. A scuola ci portavano a Palazzo Venezia a fare la guardia a Mussolini. È allora che divenni un antifascista. Sentivo già dentro di me un tratto ribelle (ride).

Da Roma a Venezia.
Mio padre aveva un negozio di vetri su piazza San Marco. A Venezia ho vissuto gli anni dell’adolescenza e mosso i primi passi con la macchina fotografica. Una parte importante della mia formazione la devo a quella città. Ancora oggi mi sento veneziano.

È una città che ha fotografato numerose volte.
Dei 258 libri che ho pubblicato in oltre cinquant’anni di lavoro, quello che mi lanciò e che segnò il passaggio dal Berengo Gardin dilettante a quello professionista fu proprio dedicato a Venezia. Uscì nel 1965, con testi di Giorgio Bassani e Mario Soldati e raccontava una città che oggi non esiste più.

Era la Venezia degli anni ’50 e ’60.
Quella di quegli anni era la capitale dei veneziani e non dei turisti. La città non aveva ancora subito il degrado che vediamo oggi del turismo di massa: di visitatori beceri e irrispettosi. E soprattutto non c’erano le grandi navi!

Il passaggio di questi “pachidermi” galleggianti aggredisce infatti un equilibrio ambientale già fragile. Per denunciare questa invasione ha prodotto il libro “Venezia e le grandi navi”. Si tratta di immagini fuori scala, così forti da sembrare quasi artificiali.
Sono fotografie che ho scattato tra il 2012 e il 2014, in cui ho voluto testimoniare il quotidiano usurpante passaggio di mastodontiche navi da crociera nella laguna di Venezia. Sono lunghe due volte Piazza San Marco e alte una volta e mezzo Palazzo Ducale. Sono questi i nuovi e dissestanti “visitatori” della città.

Torniamo al suo percorso formativo e professionale. Quella di Parigi fu una tappa fondamentale.
Mi trasferii a Parigi nel 1954 e ci rimasi per tre anni. Cominciai a lavorare prima come cameriere e poi alla reception dell’albergo Hotel de Paris. Avevo poco più di vent’anni e nei momenti liberi cominciai a frequentare l’ambiente dei fotografi. Conobbi e diventai amico di Willy Ronis, che mi insegnò le tecniche fotografiche, ma anche di Robert Doisneau. Incontrai persino Cartier-Bresson, un dio, con cui purtroppo non approfondii la conoscenza. Una volta, però, mi dedicò un libro con “affetto e ammirazione”.

Quando arrivò il salto al professionismo?
Nel 1960 rividi Romeo Martinez, che era direttore di Camera, la più importante rivista fotografica del mondo, che mi spronò a dedicarmi per intero alla professione. I primi servizi fotografici li feci in spiaggia, soprattutto con i bambini. Allora non esistevano le leggi che abbiamo oggi sulla privacy. Anzi, erano le stesse mamme che facevano la fila per far fotografare i figli. Seguirono poi i reportage sulle prime rivolte in fabbrica. Volevo testimoniare tutto.

I suoi lavori spaziano dal sociale, alla vita quotidiana, al mondo del lavoro fino all’architettura e al paesaggio. La si può definire un “sociologo” della fotografia?
Forse è un po’ eccessivo, ma in effetti qualcosa ho fatto. Ho lavorato quindici anni per il Touring Club Italiano e altri quindici fotografando le architetture di Renzo Piano. Negli anni ho anche collaborato con le principali testate nazionali e internazionali come Domus, Epoca, Le Figaro, L’Espresso, Time, Stern e prodotto 258 libri.

C’è un lavoro che l’ha appassionata più di altri?
Ho amato allo stesso modo tutto quello che ho fatto. Se un lavoro non mi piaceva non lo accettavo. In questo sono stato molto rigoroso con me stesso.

Com’è cambiata la fotografia negli anni?
Continuo a utilizzare una fotografia analogica, a pellicola. La considero superiore al digitale. Il motivo principale è che la macchina digitale rovina la mentalità dei fotografi: si scatta a mitraglia, a caso e male. Non si fa più una selezione, perché manca il pensiero. Oggi con le macchine digitali si sentono tutti fotografi. In realtà si tratta solo di gente che scatta fotografie. Quello del fotografo è un mestiere fatto di lunghi studi, non tanto di tecnica, e di saper vedere e raccontare le cose. E c’è sempre da imparare. Anche per me, alla mia età.

Cosa pensa di Photoshop?
Non mi piace, penso che andrebbe abolito.

A colori o in bianco e nero?
Il secondo, senza dubbio. Sono nato con il cinema in bianco e nero e con la televisione in bianco e nero. I miei maestri lavoravano in bianco e nero, anche se in passato, soprattutto con il Touring Club Italiano, ho lavorato a colori.

Più in generale, come vede l’Italia oggi?
Non saprei da dove partire. Dal punto di vista politico penso si sia toccato il fondo. Gli italiani sono rimasti affascinati dagli specchietti per le allodole. E vogliamo parlare dei milioni di persone che seguono in televisione i programmi spazzatura? Quando ho letto di questi numeri sono rimasto senza parole. Ci troviamo di fronte a un enorme impoverimento culturale.

Cosa le ha dato questo mestiere?
Grandi soddisfazioni, un rapporto umano molto intenso. Ma soprattutto la possibilità di lasciare qualcosa: le mie foto e i miei libri. Mi dispiace solo sapere che un giorno dovrò lasciare tutto. Non voglio pensare a quando non ci sarò più. È per questo motivo che la morte mi fa un po’ paura.

Che rapporto ha con la fede?
Andiamo male (ride). Il mio credo è più pagano. Credo infatti nella fotografia.

Si può fare un’associazione tra fotografia e fede?
Mi fa una domanda difficile, non saprei. Posso dirle, però, che una buona fotografia non muore mai.

C’è uno scatto a cui è particolarmente legato?
Quello del vaporetto a Venezia del 1960. Avevo trent’anni, abitavo al Lido di Venezia, e ogni mattina prendevo il battello per andare a lavorare a San Marco. Portavo sempre la Leica con me. Di tutti i libri di fotografia che ho pubblicato su Venezia, questa credo sia l’immagine migliore. È stata esposta in tutto il mondo e battuta a un’asta di Sotheby’s per trentamila euro.

A Milano ha un importante archivio. Com’è composto?
Al suo interno sono contenute numerose opere, tra cui: un archivio fotografico, costituito da negativi e provini, stampe fotografiche, un’ampia biblioteca di libri fotografici, documenti relativi alle mostre, attività e progetti sviluppati e una selezione delle macchine fotografiche che ho usato negli anni. Si tratta di un grande lavoro di gestione e tutela delle mie opere, che cura mia figlia Susanna. Per fortuna ho lei, perché di solito gli archivi fanno una brutta fine.

In questi giorni alcune sue foto sono esposte a Cagliari, presso la sede della Fondazione di Sardegna, in un tour artistico sui nuraghi. Com’è nato il progetto?
È nato dall’idea dell’ex Soprintendente ai Beni Archeologici della Sardegna Marco Minoja, che mi ha proposto una vasta ricognizione fotografica sulle architetture nuragiche dell’isola. Insieme, con anche mia figlia Susanna, abbiamo girato tutta la Sardegna per circa una settimana. Ne è nata una mostra di 40 opere in bianco e nero, e un volume con circa 130 fotografie, realizzata grazie al contributo della Fondazione di Sardegna, accompagnate da un breve testo che riporta le impressioni di studiosi, archeologi e giornalisti che hanno seguito il nostro percorso.

Non era la prima volta che lavorava in Sardegna.
Negli anni ho visitato l’isola più volte, anche per lunghi periodi. All’inizio degli anni ’70 portai avanti un ampio progetto per il Touring Club. Qualche anno fa, invece, ho lavorato a un’idea personale. Da quel progetto e da quello dei mesi scorsi è nato il libro “Architetture di Pietra - Fotografie della Sardegna Nuragica” pubblicato da Imago.

Ha altri progetti nel cassetto?
Sono sempre aperto ad accogliere nuove proposte. Nel frattempo tengo stretta la passione per il giardinaggio. Amo infatti piantare alberi in un pezzetto di terra che ho a Camogli. E mi godo la pensione. Del resto, a quasi 88 anni, posso permettermelo.