SOCIETA'

Bonolis: "Non sono cinico, cerco solo di trasmettere leggerezza"

Il noto conduttore, che ha inventato un vero e proprio genere televisivo, parla del suo modo di fare spettacolo. Ma anche di vita privata e… solitudine

di Davide Lamagni

E' sicuramente uno dei personaggi più amati della televisione italiana degli ultimi quarant'anni. Non solo un conduttore, ma un vero e proprio genere televisivo. Paolo Bonolis è stato infatti uno dei pochi uomini dello spettacolo che non si è conformato al modo di lavorare di tanti colleghi dello showbiz e lo ha fatto semplicemente raccontando quello che è e quello che porta con sé. Questo tipo di approccio al mestiere l'ha portato anche a essere criticato, a essere visto come uno "straniero in terra straniera", per citare l'omonimo romanzo di fantascienza di Robert Heinlein. 
Il suo è stato un tentativo deliberato di sfidare le consuetudini, le regole, "l'affettazione perbenista della televisione". Bonolis è limpido, schietto, immediato. Dopo averci scambiato le prime parole si nota subito la sua tendenza a desacralizzare ciò che di solito viene invece sacralizzato, perché, come dice lui stesso, "alcune cose non meritano assolutamente di esserlo". 
Bonolis è sempre capace di stupire con ironia e leggerezza, ma anche attraverso momenti di riflessione intensi sui temi più importanti della vita. Alla fine del 2019 ha pubblicato per Rizzoli il suo primo libro "Perché parlavo da solo", un'autobiografia intima, ironica e riflessiva, che svela ai lettori la persona oltre al personaggio televisivo. Alcuni di questi aspetti ce li ha raccontati lui stesso a inizio febbraio, ospite della rassegna di Forum Eventi al BPER Forum Monzani di Modena.

Bonolis, com'è nata l'idea di pubblicare un libro? 
"L'hanno avuta i miei autori. Un giorno sono incappati in alcuni miei appunti lasciati sul tavolo del mio studio, a Roma. Erano pensieri sparsi, che avevo scritto perché non volevo dimenticarli. Li hanno letti e mi hanno proposto di ampliarli per farne un libro".

Davvero parlava da solo? 
"L'ho fatto per tanto tempo, perché ho passato periodi in cui non avevo interlocutori accanto. Poi ho pensato che a proseguire su questa strada qualcuno avrebbe potuto pensare che avessi chissà quale patologia, così mi sono messo a scrivere. E nel corso degli anni ho raccolto su carta tanti pensieri".

Adesso è guarito?
(ride) "No, guarito no. Mi sono reso conto che in realtà non si tratta di una malattia, ma di un'opportunità!".

L'hanno però dovuta convincere a scriverlo.
"Sì è vero, lì per lì non lo ero. Poi mi sono chiesto per chi avessi scritto quei pensieri e in un attimo abbiamo deciso". 

Per i suoi figli, dico bene? 
"Esatto, questo libro è dedicato a loro. Mi sarebbe piaciuto ricevere un libro scritto da mio padre, per conoscerlo un po' di più e poter ampliare oggi il suo ricordo. L'ho voluto lasciare a loro, ai più piccoli in particolare, perché nel libro c'è assenza totale di ipocrisia e la volontà di far capire ai ragazzi quanto sia importante coltivare profondamente i propri sogni, diffidando invece dalle illusioni che, al contrario, sono pericolose. I sogni, infatti, ci appartengono, mentre le illusioni ce le trasmettono gli altri".

In che senso?
"I giovani oggi vengono telecomandati nella quotidianità dagli smartphone, dai tablet e da tutto quello che è già preconfezionato, ma anche da genitori particolarmente ossessivi, che gli scandiscono la giornata facendo in modo che la noia non tocchi mai la loro vita. La noia, invece, aiuta a tirar fuori se stessi e a costruire la propria personalità".

Leggendo i suoi pensieri, già riportati nelle prime pagine del libro, si tocca con mano la sincerità con cui sono stati scritti. Allo stesso tempo traspare il suo (buon) rapporto con la solitudine.
"È vero, la solitudine mi piace: è una splendida posizione nell'esistenza, dove ci si può permettere di ragionare e di pensare senza il 'frastuono' degli altri. Allo stesso tempo è qualcosa che le nuove generazioni stanno perdendo, soprattutto nella possibilità di annoiarsi".

Possiede una grande padronanza linguistica e un'ottima "arte oratoria". A volte, quando parla, sembra reciti uno scioglilingua. Che differenze ha trovato tra l'uso del parlato e lo scritto?
"Scrivere mi è piaciuto molto. Mi sono però accorto che è una cosa molto diversa dall'uso della parola, in cui si ha la possibilità di essere aiutati da altri strumenti: dalla gestualità, ad esempio, ma anche dal cambio del tono di voce o dall'ammiccamento. Nella scrittura tutto questo non c'è, quindi per riuscire a comunicare correttamente c'è bisogno di cercare la parola e 'confezionare' la frase. È stato un esercizio stimolante".

Nel libro tratta numerosi temi: dalla tecnologia alla letteratura, dalla religione alla famiglia, dalla politica ai viaggi e allo sport. Argomenti che fanno parte della vita di tutti. Ce n'è stato uno che ha fatto fatica ad approcciare? 
"Non ho incontrato molte difficoltà, perché si tratta di quello che ho finora pensato. Sottolineo finora perché i pensieri, nel corso della vita, tendono a cambiare. Ho trovato forse qualche ostacolo, anche confrontandomi con altre persone, nell'approcciare il tema della tecnologia e della religione".

In che modo?
"Da agnostico ci sono andato con i piedi di piombo a parlare di fede, perché il rischio è quello di calpestare i pensieri e le sensibilità delle persone che credono. Per quello che invece riguarda la tecnologia ho avuto qualche problema perché vivo in un'epoca in cui mi sento un po' fuori luogo: sono un essere analogico in un mondo digitale. Non ho nulla contro alla tecnologia, sia chiaro, quello che dico è che bisognerebbe saperne fare un buon uso e non un abuso, come invece accade spesso".

Sempre nel testo dice di usare "leggerezza" e "accettazione" come antibiotici per vivere meglio la vita. Cosa intende? 
"Parlo di accettazione intesa non nel rinunciare a migliorarsi, ma nell'accettare, appunto, che possiamo anche avere dei limiti, senza che questo possa essere visto e vissuto come un problema. Abbiamo il dovere di tentare di miglioraci in tutto quello che possiamo fare nel corso della vita, ma può anche non riuscirci. La leggerezza, invece, è una velocità di percorso che ti permette di affrontare le cose non dandogli un peso soggettivo troppo negativo. Nel corso della vita possono accadere fatti sia belli che brutti. Questi ultimi, però, vengono spesso vissuti come un destino infame sul quale arrovellarsi; bisogna invece provare ad affrontarli e a risolverli con quella leggerezza che permette di viverli per quello che sono, senza il sovraccarico della negatività che spesso aggiungiamo".

Vuole dire che possiamo andare incontro alla felicità? Lei come ci riesce? 
"Non esattamente. Certo, si può andare incontro alla felicità, anche se penso che il più delle volte venga da sola, come la morte (ride). Ho la fortuna, per mia natura, di essere felice quando vedo felici gli altri: due ragazzi che si baciano, il sorriso di qualcuno o semplicemente dei bambini che giocano tra loro. Per il resto provo a fare le cose che mi piacciono. La felicità è fatta per lo più di sprazzi, di momenti".

Ce ne può raccontare uno in particolare?
"Ne ho avuti tanti, per fortuna, ma tra tutti la nascita dei miei figli, così come quando li ho visti fare cose nuove. Ma anche quando ho amato o quando l'Inter ha vinto il "triplete" (ride ancora). Come vede la felicità è racchiusa in tante cose, da quelle più importanti a quelle più volubili ed effimere".

Da quasi trent'anni Luca Laurenti è suo frequente partner nelle trasmissioni televisive. Come vi siete conosciuti?
"Era il 1991. Stavamo facendo dei provini a dei cantanti per una trasmissione, un telequiz di nome "Urka!". Tutti bravi, ma un po’ uguali. Poi arrivò Laurenti. Si presentò con la sua voce "da citofono" e ci si rizzarono i peli, ma quando iniziò a cantare (Overjoyed di Steve Wonder) non ce ne fu più per nessuno. Preso subito. La completa distonia tra il parlato e il cantato rimane comunque un mistero, un miracolo della natura!".

Siete molto affiatati, sembra vi completiate.
"Infatti è così. Nella costruzione dello spettacolo Luca mi consente di entrare e uscire da quello che stiamo raccontando, con quel grado di improbabilità che solo lui è in grado di dare. Cioè, lui è qui, ma non è qui, è da qualche altra parte (ride). Per certi aspetti è affascinante! Non ho mai avuto un fratello, ma è come se lo fosse".

In passato ha ricevuto alcune critiche sul suo modo di approcciare le persone, soprattutto quelle ospitate all'interno dei suoi programmi. Dicono che lei sia cinico…
"Questo è quello che vedono alcuni. Per fortuna la maggioranza delle persone non vede questo, ma un divertito disincanto, che è completamente diverso dal cinismo. Non mi permetto mai di mettere il dito in una piaga, mi permetto di sorridere di qualcosa che alcuni considerano piaga, ma che non lo è affatto. Il divertimento è dato anche dal contesto, che è di assoluta leggerezza. Il cinismo in realtà è un po' come il colesterolo". 

In che senso?
"Nel senso che, come per il colesterolo, c'è quello buono e quello cattivo. Quest'ultimo è quello che porta all'indifferenza verso gli altri, mentre quello buono è quello che porta alla leggerezza, quindi a farti rendere conto che ci sono cose che noi tendiamo a sacralizzare e che invece non meritano di esserlo. Un sano cinismo aiuta piuttosto a superare con leggerezza le difficoltà dell'esistenza".

Qui emerge tutto il suo disappunto sul cosiddetto "politically correct".
"Non mi piace per nulla. Si tratta di una maschera ipocrita del nostro pensiero. Da un po' di tempo in televisione si cammina troppo sulle uova, nel senso che si ha paura a essere spontanei, autentici. Ci si affida piuttosto a pacchetti preconfezionati che standardizzano tutto e tutti. Trovo sia una grossa perdita per l’individuo e per il personaggio televisivo, perché ognuno, se onesto e mantenendo le proprie caratteristiche, è in grado di raccontare mondi sempre diversi. Se riuscissimo a mettere da parte un po' d'ipocrisia si potrebbe fare una televisione migliore".

A chi si è ispirato nel fare questo lavoro?
"Mi porto dentro tante persone incontrate nel corso degli anni. Tra tutti sicuramente Alberto Sordi, Raimondo Vianello e Corrado, persone che ho avuto modo di vedere e di seguire negli anni della mia crescita umana e professionale e che, nel tempo, hanno attecchito e lasciato dei sedimenti. Noi tutti, in realtà, siamo in parte ciò che siamo e in parte ciò e chi incontriamo".

Bonolis, per concludere, come si vede tra dieci anni?
"Tra dieci anni ne avrò quasi settanta… come vuole che mi veda: quasi morto!". (ride)

In questa risposta c’è tutto Paolo Bonolis, nella sua leggerezza, nel suo disincanto e nel suo (sano) cinismo.