SOCIETA'

Dalla Napa Valley a New York: l'Italia nelle vene d'America

In "Italian American Country" Paolo Battaglia racconta storie, aneddoti e personaggi dimenticati delle comunità italiane negli USA

di Marcello Floris

Paolo Battaglia, autore nel 2012 di "Trovare l’America", non ha resistito, sei anni dopo, al richiamo degli Stati Uniti e al fascino delle sue città, dei suoi villaggi e delle sue campagne, ed è andato alla caccia di storie che hanno visto protagonisti gli italoamericani di ieri e di oggi. Ha attraversato gli States in lungo e in largo, passando dai grattacieli di New York agli altopiani del Colorado, dalla vecchia Frontiera del West alla mitica California.


Battaglia, quali novità ci sono in questo secondo libro?
"Trovare l'America raccontava la storia degli italiani negli Stati Uniti attraverso le raccolte del più grande museo federale americano, la Library of Congress di Washington.
Era una storia che si concentrava soprattutto sulle grandi città del nord-est, Washington, Philadelphia, Boston e New York dove milioni di italiani emigrarono tra la fine dell'Ottocento e i primi decenni del Novecento. Con il nuovo libro invece si viaggia alla scoperta delle comunità di italiani che hanno colonizzato ogni angolo di quell'immenso paese. Inoltre, Italian American Country è anche un documentario e dunque ci permette di ascoltare le voci dei discendenti degli emigranti italiani che vivono ancora in queste comunità". 

Effettivamente quando si pensa agli italiani d'America, spesso si fa riferimento ai quartieri di New York o delle altre grandi metropoli. Tu invece hai riscoperto un'Italia viva anche nelle piccole città e nelle campagne, fino a quella che un tempo veniva chiamata 'Frontiera'. 
"Esatto, è giusto dire che ho riscoperto questa Italia perché i miei viaggi hanno seguito le orme di quelli compiuti nei primi anni del Novecento da Edmondo Mayor des Planches, ambasciatore italiano a Washington. Il suo scopo era di favorire l'emigrazione dei nostri connazionali in luoghi più adatti ad accogliergli, per il clima e per le attività economiche che vi si svolgevano. Il percorso dell'ambasciatore fu davvero un viaggio in luoghi di Frontiera. Basti citare il fatto che a Tontitown, in Arkansas, pochi anni prima della visita dell'ambasciatore, gli uomini arrivati in quei luoghi sperduti dall'Emilia, dal Veneto e dalle Marche erano stati costretti ad affrontare dei fuorilegge travestiti da indiani che avevano bruciato la prima chiesa costruita dagli italiani".

Per raccogliere le storie che racconti hai viaggiato in lungo e in largo negli Stati Uniti. Quali sono state le principali tappe e i luoghi più insoliti che ti hanno maggiormente colpito?
"Una parte fondamentale di questo progetto è proprio il viaggio: sostituite le rotaie su cui viaggiava la carrozza riservata dell'ambasciatore con l'asfalto delle highways, ho percorso 25.000 chilometri incontrando e intervistando oltre cento persone e visitando decine di luoghi. Tutti hanno – o hanno avuto – un ruolo nella storia dell'emigrazione italiana, da Barre in Vermont dove gli scalpellini carraresi hanno portato la loro arte e le loro idee politiche, a Pittsburg in California dove le vele latine dei pescatori di Isola delle Femmine hanno colonizzato fiumi e oceani; da Valdese, fondata da protestanti piemontesi che hanno trasferito la loro comunità dalle Alpi alle Blue Ridge Mountains del North Carolina, a Denver, che oggi è una grande città, ma che a fine Ottocento quando iniziarono ad arrivare gli italiani era ancora un avamposto di frontiera. Tutti i luoghi che ho visitato mi hanno lasciato qualcosa, ma forse sono i paesi che ho visitato nel profondo sud, dalla Louisiana al Mississippi, dal Tennessee all'Arkansas quelli a cui sono più legato".

Qual è stato l’aneddoto o la storia più interessante che hai scoperto?
"Quella più affascinante ha a che fare sia con la storia in sé che con il modo e il luogo in cui l'ho scoperta. È la vicenda di Giovanni Maria de Agostini, un eremita vagabondo che dopo avere percorso tutti gli Stati Uniti a piedi si era stabilito in una grotta nel deserto del New Mexico, fino al giorno in cui non venne trovato morto. Era stato assassinato e, come spesso capitava nell'America di quei tempi, i sospetti ricaddero immediatamente su un gruppo di italiani che lavorava alla costruzione della ferrovia”.

Studiare e viaggiare da solo ti ha agevolato? 
"Assolutamente si. Spesso per questa ragione è capitato più facilmente di avviare conversazioni con chi si incontrava nei ristoranti e negli hotel. Nella piccola cittadina di Las Vegas in New Mexico, mi ero messo a spiegare il motivo dei miei viaggi al receptionist dell'hotel in cui ero appena arrivato e lui per tutta risposta ha tirato fuori un faldone che conteneva le sue ricerche per scrivere un libro su El Solitario, come chiamavano da quelle parti de Agostini e mi ha raccontato tutta la storia di questo italiano di frontiera. E non contento mi ha anche chiesto se avessi visto il film dei fratelli Coen Non è un paese per vecchi. 'Certo' gli ho risposto, 'Bene, allora quando entrerai in camera riconoscerai la serratura che il killer interpretato da Javier Bardem fa saltare per uccidere il suo rivale'. E così ho scoperto di essere finito sul set di uno dei miei film preferiti". 
 
Tanti immigrati italiani lavoravano un tempo a capo chino nei campi e nelle fabbriche, in perfetto anonimato, ma tanti furono artisti che ebbero fortuna. Tu racconti per esempio dei jazzisti di New Orleans…
"L'importanza dei musicisti italiani per la nascita del jazz è una cosa poco conosciuta. New Orleans, la culla del jazz, è da sempre una delle città più italiane degli Stati Uniti. Qui fino alla fine dell'Ottocento arrivavano dei piroscafi direttamente da Palermo e furono moltissimi i siciliani a stabilirsi in Louisiana e negli stati limitrofi, tanto che il famoso French Quarter, per un certo periodo fu conosciuto come Little Palermo. Qui la tradizione musicale italiana, che era sempre uno degli elementi culturali più vivaci delle comunità degli emigranti, si mescolò a quella del Sud, alle sonorità afroamericane del blues, al folk di origine anglosassone e tutte insieme contribuirono a sviluppare i primi embrioni di quello che in seguito venne definito jazz. Tra i primi sperimentatori di questo genere si ricorda ad esempio Papa Jack Laine, alias Giorgio Vitale, tra i più famosi band leader del periodo. Ma soprattutto va citato Nick La Rocca autore del primo disco di jazz inciso nella storia eseguito dalla sua Original Dixieland Jass Band nel 1917”. 

Poi ci sono anche i cowboy piemontesi di Paradise Valley… 
"Paradise Valley è un altro dei luoghi da film che ho visitato: ancora oggi arrivarci è un'impresa, disperso com'è all'interno del deserto del Nevada. E ancora oggi ci abitano poche centinaia di persone. Eppure, per non si sa quale forza magnetica, qui negli ultimi decenni del 1800 arrivarono decine di piemontesi che prima lavorarono per costruire tutti gli edifici in pietra che caratterizzano Paradise Valley e i paesi circostanti, poi pian piano diventarono proprietari terrieri, veri e propri cowboys che nelle foto storiche vediamo mentre guidano carri coperti e mentre catturano al lazo il bestiame per marchiarlo”.

Il vino della Napa Valley è famoso in tutto il mondo ma l’ultimo capitolo del tuo libro racconta che c’è lo zampino degli italiani anche lì. Come mai?
"Prima di tutto perché tra i coloni che accorsero in California per la corsa all'oro del 1849 c'erano anche parecchi italiani provenienti soprattutto da Liguria e Piemonte. E ovviamente, insieme al resto, portarono con sé la loro cultura del vino che, nel bene e nel male, ha segnato l'esperienza italiana in America. Infatti, in tutti luoghi che ho visitato si racconta che fare il vino è da sempre una delle attività comunitarie tipiche, che per molti decenni ha dato un impulso alla produzione delle uve californiane che venivano acquistate da italiani in tutti gli Stati Uniti per produrre vino casalingo. Quello stesso vino casalingo che, durante il proibizionismo ha poi creato notevoli grattacapi (e qualche guadagno) agli italiani. Ma tornando alla Napa Valley, uno dei pionieri della produzione di vini di alta qualità californiani è stato Robert Mondavi, originario delle Marche ma nato a Lodi. Non quella in Lombardia però, quella in California”.

Che contributo danno oggi gli italiani alla 'potenza americana'? Tra fine Ottocento e inizio Novecento arrivarono a Ellis Island milioni di italiani miseri e analfabeti. Pian piano sono arrivati ai vertici della società e oggi per esempio il sindaco (De Blasio) e il governatore di New York (Cuomo) sono discendenti di quegli immigrati. L'evoluzione degli italoamericani passa attraverso esempi come questo?
"Dalla Seconda guerra mondiale in poi, l'integrazione degli italiani nella società americana ha fatto passi da gigante. Oggi sono 17 milioni gli americani che dichiarano un'origine italiana e molti di loro occupano posizioni di potere. Oltre a quelli che hai ricordato, citerei altri due nomi: Nancy Pelosi e Samuel Alito, la prima battagliera parlamentare progressista, il secondo giudice conservatore della corte suprema. Sono esempi di un'evoluzione sorprendente che ci ha portato in poche generazioni dall'essere oggetto di razzismo e pregiudizio, a volte violento (non dimentichiamo mai che gli italiani sono il gruppo ad avere subito il maggior numero di linciaggi dopo gli afroamericani) a essere
perfettamente integrati nella società americana ad ogni livello”.

Esiste ancora un “sogno americano”? Come è cambiato nel corso delle generazioni? 
"Il sogno americano è proprio questa possibilità di crescita che ancora oggi, anche se in misura minore, si sente nella società americana, che sa essere senz'altro 'spietata' ma che, come mi hanno raccontato i fratelli Lombardi a Denver, permette ancora di 'trovare l’America'. Pietrantonio e Ezio Lombardi seguirono i loro genitori che negli anni Sessanta si trasferirono dalla Calabria al Colorado. I loro primi anni furono durissimi: ancora alle elementari, Pietrantonio seguiva i genitori e il fratello tutte le notti per fare le pulizie in uffici e scuole e al mattino la maestra lo sgridava perché non riusciva a tenere gli occhi aperti. Ma questi sacrifici hanno pagato e oggi sono orgogliosi proprietari di una Ferrari e il figlio di Ezio è uno dei più stimati giornalisti sportivi di Denver”. 

Cosa resta ancora di italiano nelle comunità che hai visitato e in cosa invece sono diventate americane?
"La frase che Martin Scorsese ha scritto nella prefazione di Trovare l'America è validissima per tutti gli italiani che ho incontrato: 'I miei nonni erano italiani, i miei genitori erano italoamericani, io sono americano italiano, i miei figli sono americani'. Però in questo processo di americanizzazione delle nuove generazioni c'è anche lo spazio per recuperare le tradizioni e la lingua che nel corso dei decenni si era persa. Infatti sono molti i giovani americani di origine
italiana che frequentano corsi per imparare la nostra lingua. E poi c'è un altro elemento che, anche se contaminato qualche volta da abitudini americane, ti fa sentire a casa quando sei in mezzo a italiani in America ed è ovviamente il cibo, come la polenta mangiata a casa di Mary Maestri, i cui antenati, provenienti da Zocca, furono tra i fondatori di Tontitown. E proprio sulla polenta ti racconto uno degli aneddoti più curiosi legati al cibo: i veneti emigrati a Tontitown, in assenza di osei, la polenta la mangiavano con gli scoiattoli”.

È spesso d'attualità il tema di un'Italia che un tempo veniva abbandonata per andare in America e che oggi invece è diventata luogo di approdo per tanti che cercano una vita migliore. Trovi analogie tra il fenomeno di allora e quello di oggi?
"Il motivo che mi ha spinto a occuparmi di storia dell’emigrazione italiana in America è proprio il tentativo di comprendere - e far comprendere - cosa significa essere emigrante. Una necessità che credo sia di primaria importanza per la nostra società che si è trovata per la prima volta nella sua storia a essere meta di immigrazione e non fonte di emigrazione. E se devo trovare una costante nella storia dell'emigrazione è forse proprio la capacità di dimenticare cosa significa trovarsi in una società, come mi hanno raccontato in Louisiana, 'in cui sei disprezzato, discriminato, in cui lavori come uno schiavo per un pezzo di pane e ti considerano un criminale'. È qualcosa che abbiamo dimenticato noi in Italia ma è qualcosa che, come sappiamo, dimenticano molto spesso anche in America, senza considerare che loro più di ogni altra nazione al mondo sono un paese di immigrati".

Chi dall’Italia oggi arriva in America che paese incontra? Ormai c’è spazio solo per ricercatori e scienziati? 
"Come dicevo prima, anche se più difficile da raggiungere, il sogno è ancora vivo, e non solo per ricercatori e scienziati. Sono appena rientrato dal tour di presentazione di Italian American Country e con me c'erano il doppiatore Alessandro Quarta (che è anche il narratore del mio documentario) e l'attrice Sara De Santis. Anche loro tra qualche mese partiranno con il sogno di portare l'arte del doppiaggio negli Stati Uniti. In generale la mia impressione, percorrendo le highway in un ennesimo coast-to-coast, è sempre quella di un paese immenso quanto le sue contraddizioni, ma in cui è ancora possibile, attraverso il sacrificio e la determinazione, raggiungere i propri obiettivi".