"Hate speech", e se la soluzione fosse chiudere la Rete?
È chiaramente una provocazione, ma odio e aggressività rappresentano la base delle nostre interazioni virtuali. Dito puntato contro i gestori dei social
Non molto tempo fa ho scritto un messaggio a mio zio per chiedergli quali sono, secondo lui, i motivi che spingono un suo amico, mio conoscente, a pubblicare quotidianamente sui social post in cui fomenta le frustazioni delle persone e in cui lascia trasparire tutto il suo cinismo, il suo risentimento e il suo ego smisurato. "È sempre stato così", la sua risposta.
Mi sono allora tornate in mente le parole che Umberto Eco pronunciò nel 2015 per tacciare gli odiatori da tastiera: "I social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività. Venivano subito messi a tacere, mentre ora hanno lo stesso diritto di parola di un Premio Nobel. È l’invasione degli imbecilli".
Oggi siamo tutti medici, biologi, avvocati, criminologi ed esperti di tante altre discipline di cui non sappiamo nulla. In questi mesi ci siamo addirittura trasformati in virologi e ingegneri in grado di spiegare come combattere la diffusione del Covid-19 o di come costruire il nuovo ponte di Genova. Come facciamo? Semplice, studiamo su Google. La Rete ha infatti portato il sapere del mondo alla portata di tutti. Così ci convinciamo sempre di più di poter fare a meno delle competenze e delle esperienze. Il problema, però, è gestire la massa non filtrata di informazioni che arriva in modo istantaneo: basta un click. Una mole enorme di dati e nozioni, ma anche di tante bufale, che non consente di valutare, riconoscere e selezionare. Il paradosso è che tutto questo non porta a conoscere, ma a confondere, aggiungendo all'ignoranza una grande arroganza che, sotto l'"effetto dei social network", porta le persone a perdere i propri freni inibitori e a usare una comunicazione rozza e violenta. L'esplosione di odio e aggressività che si sperimenta oggi sulle piattaforme sociali, il cosiddetto "hate speech", fa sempre più da leitmotiv alle nostre interazioni virtuali.
A confermare questo (triste) trend è anche la "Mappa dell’Intolleranza", il progetto ideato da Vox Diritti - Osservatorio Italiano sui diritti in collaborazione con l’Università Statale di Milano, l’Università di Bari, La Sapienza di Roma e il Dipartimento di Sociologia della Cattolica di Milano. Giunta alla quarta edizione, la mappatura consente l'estrazione e la geolocalizzazione dei tweet che contengono parole considerate sensibili e mira a identificare le zone dove l’intolleranza è maggiormente diffusa secondo 6 gruppi (donne, omosessuali, migranti, diversamente abili, ebrei e musulmani), cercando di rilevare il sentimento che anima le communities online, ritenute significative per la garanzia di anonimato che spesso offrono (e quindi per la maggiore "libertà di espressione") e per l'interattività che garantiscono.
I numeri della ricerca
Nel periodo tra marzo e maggio 2019 sono stati estratti complessivamente 215.377 tweet. Di questi, 55.347 riguardano le donne e 39.876 sono i tweet misogini che sono stati intercettati, il 27% del totale dei tweet negativi. 17.242 tweet geolocalizzati hanno permesso di creare le "mappe termiche", che rendono graficamente l'idea della concentrazione geografica, con una scala di colori che parte dal verde per avvicinarsi al rosso quando la densità aumenta. Secondo la rilevazione le donne sono "odiate" principalmente nelle città di Milano, Bologna, Firenze e Napoli, anche se il dato va regolato con la maggiore propensione all'utilizzo di Twitter nelle grandi città.
L'islamofobia si ritrova in 22.532 tweet, pesa per il 15% del totale e si concentra a Bologna, Torino, Milano e Venezia, ma scema nelle comunità dove la presenza di musulmani è maggiormente integrata. Milano, Venezia, Bologna, Napoli e poi a calare Firenze, Roma e il centro della Sicilia sono le zone più propense a praticare l’omofobia sui social con 7.808 tweet negativi (5%), ma anche 3.933 positivi sul complessivo di 11.741 che trattavano tematiche Lgbt.
Chiudere la Rete
Tempo fa su "IL Magazine" la giornalista Guia Soncini ha scritto un articolo intitolato "Una modesta proposta". L'idea era quella di chiudere la Rete. O meglio, di far pagare l’uso di Internet "un centesimo per ogni opinione che ci urge esprimere su temi di cui non sappiamo nulla", facendo così in modo che urga molto meno e di conseguenza si metta un freno alla "dittatura dell’incompetenza" e, forse, anche a quella dell’odio. La sua era chiaramente una provocazione ma, per quello che riguarda l'hate speech, se fossero davvero i social network a renderci più cattivi di quanto non siamo nella realtà, quale potrebbe essere una soluzione?
L’odio, ma soprattutto il pregiudizio, è in realtà sempre esistito: una divisione di schieramenti opposti che si costruiscono intorno a un insieme di credenze fondate sulla paura e l’ignoranza. È quindi sulle peculiarità del mezzo che si focalizza l’attenzione, ossia sulla possibilità dei social di consentire l’anonimato attraverso l’uso e l’abuso di profili fake. Ma anche sul fact checking che i gestori delle piattaforme dovrebbero attuare.
Le responsabilità
Internet ha sicuramente facilitato e arricchito la nostra quotidianità, consentendo ampie possibilità di sviluppo e di conoscenza. Il Web però è un’altra cosa. I social sono uno strumento molto potente, a tratti oscuro, che presta il fianco ad abusi. Persino uno dei primi investitori di Facebook, Sean Parker, ha affermato in un’intervista di qualche tempo fa che "i social sfruttano le debolezze psicologiche delle persone", alimentando così l’ansia e la paura di rimanere esclusi dal flusso irrefrenabile di notizie, a prescindere dalla loro fondatezza. Parker ha inoltre dichiarato che i social, Facebook prima di tutti, sono partiti da una domanda: "Come faccio a consumare la maggior parte del tempo e dell’attenzione cosciente delle persone?". Hanno quindi "sfruttato una vulnerabilità nella psicologia umana", la necessità di riconoscimento sociale, "dando ogni tanto un po' di dopamina, perché qualcuno mette 'mi piace' o commenta una foto, un post o qualcos'altro. Ma nel sistema di interazioni online – ha aggiunto – basato su cuori, like e pollici all'insù non c’è nessun discorso civile, nessuna cooperazione, ma disinformazione e menzogna".
I social sono dunque il porto franco dell'hate speech? Ad oggi sembra proprio di sì, e la responsabilità è dei loro gestori, che finora hanno garantito la totale impunità a chi alimenta l'odio, contando sui ritardi normativi di numerosi Paesi. Vi è infatti l’idea, sbagliata, che le piattaforme digitali non siano responsabili delle informazioni che veicolano e delle attività che si svolgono al loro interno. Ma per ritrovare un minimo di moderazione è necessario iniziare a fissare delle regole, così come in passato è stato fatto per altri ambiti (ad esempio per i mezzi di comunicazione di massa e per le telecomunicazioni).
Con Internet, e i social in particolare, le opinioni degli altri invadono la nostra vita come mai è successo prima. E, come ben sa chiunque sia stato oggetto di bullismo o cyberbullismo, il giudizio sociale viene quasi sempre esercitato con forza e in modo ampio.
Se da una parte, però, la Rete mette in collegamento tra loro le persone, dall'altra allo stesso tempo disconnette le azioni dai loro effetti. Questo passaggio così veloce ci costringe a reagire immediatamente, senza lasciarci la possibilità di prendere il tempo giusto per ragionare sulle loro conseguenze. Per combattere l'odio sul web, e per sapere chi siamo davvero, dovremmo disconnetterci, coltivando germogli di civiltà fuori dalla rete e cogliendo tutte le occasioni possibili di "contatto". La vera sfida, infatti, è quella di evitare di rimanere rinchiusi nella cella del proprio io, magari anche solo tornando a prendere in mano un caro e vecchio libro.