Impariamo a tenere gli occhi aperti in un "vortice di polvere"
La fotoreporter e scrittrice Annalisa Vandelli racconta il percorso professionale e umano che l'ha portata a lavorare in Africa, Medio Oriente e Centro America
Annalisa è come me l’aspettavo. Genuina. Mi sono fatto quest’idea ancor prima di incontrala all’appuntamento che ci siamo dati qualche giorno fa per l’intervista. E’ stato infatti sufficiente soffermarmi su qualche immagine dalla sua mostra fotografica intitolata “In un vortice di polvere”, organizzata a Roma presso galleria 28 nella suggestiva Piazza di Pietra e sostenuta da BPER, per comprenderne una dichiarazione di intenti onesta e appassionata. Un’esposizione di 60 opere, da poco conclusa e curata da Uliano Lucas e Tatiana Agliani, che racchiude dieci anni di viaggi nei Sud del mondo, e di un libro che l’accompagna sotto forma di Moleskine. Immagini che ci riportano a un mondo in netta contrapposizione rispetto a quello in cui viviamo e a cui siamo abituati, dove il tempo ci sfugge di mano e ci allontana dalla parte più profonda di noi, ormai assuefatti da emozioni digitalizzate a forma di pollice alzato.
Quel vortice di polvere, che riprende l’incipit di una canzone di De Andrè - “Il suonatore Jones” (“In un vortice di polvere gli altri vedevan siccità, a me ricordava la gonna di Jenny in un ballo di tanti anni fa”), sembra voler ricordare che anche nelle situazioni più disparate, e disperate, è possibile trovare la bellezza, l’importante è imparare a tenere gli occhi aperti per poterla cogliere.
Annalisa ha voluto mostrare, con grande empatia, le storie di uomini e donne che in numerose parti del mondo continuano ad essere segnate dalla violenza, dalle carestie e da discriminazioni di ogni genere. Ha dato loro una voce che, attraverso il loro sguardo, i loro occhi, si traduce in un atto di accusa verso quella parte di mondo che continua a ignorarli.
Immagini in grado di raccontare una storia e che, come affermato dallo storico dell’arte, scrittore e biografo tedesco Andreas Neufert, sono spesso paragonabili a quelle del fotografo francese Henri Cartier-Bresson, considerato dai più il pioniere del foto-giornalismo. Ma non ditelo ad Annalisa, questo confronto la imbarazza.
Annalisa, sarai lusingata del paragone fatto da Neufert tra le tue fotografie e quelle di Bresson, un mostro sacro del foto-giornalismo tanto da essere soprannominato “occhio del secolo”.
Quando ho letto del paragone di Andreas mi è quasi venuto un colpo! Mi ha fatto molto piacere e non vorrei contraddirlo, vista anche la sua caratura, ma per me Bresson rimane un modello difficilmente raggiungibile, a cui comunque mi sono ispirata. Anzi, confrontata. Diciamo che si è trattato di un paragone estremo, quasi di una provocazione.
Etiopia, Eritrea, Nicaragua. Viaggi tanto, soprattutto nei paesi del Sud del mondo. Cosa ti spinge fino a lì?
Per il primo viaggio in Etiopia mi venne chiesto dalla Cooperazione Italiana allo Sviluppo in ambasciata di gestire l’ufficio stampa e comunicazione per il lancio di un programma sui minori e sulle politiche di genere. Oltre agli articoli mi commissionarono anche le foto. Successivamente proseguii con l’idea di raccontare i progetti, i programmi e le situazioni estreme di questi paesi. Riesco quindi a produrre testi e foto per i giornali, con l’intento di far emergere certe situazioni di cui ancora oggi non si parla abbastanza.
E cosa ti lasciano a livello umano?
La capacità di cogliere la semplicità e di apprezzare la condivisione con il prossimo. Vivere queste situazioni mi fa sentire una privilegiata. In Eritrea sono stata in un cimitero in cui sono sepolti i militari italiani caduti nella battaglia di Cheren del 1941 contro le forze britanniche. Lì è riportata una stele che riporta un epitaffio di un generale italiano in cui c’è scritto: “Gli eritrei sono splendidi, tutto quello che potremmo fare per loro non sarà mai abbastanza di quello che loro hanno fatto per noi”. Ecco, questo mi fa pensare ai profughi che fuggono dalle loro terre su un barcone e del tipo di accoglienza che l’Italia riesce a dargli.
Qual è il paese che ti ha emozionata maggiormente?
Il Nicaragua, dove ho vissuto quasi sette mesi. E’ un paese in cui trovi scritto sui muri “Viva la poesia”! Ho incontrato persone incredibili, da rivoluzionari a intellettuali: tutti mi hanno lasciato qualcosa. Quando vado lì mi sento a casa.
Da giornalista a scrittrice e fotoreporter. Arti e mestieri che presentano un minimo comun denominatore: la parola. Da fotografa, come cambia il modo di comunicare?
Intendo la fotografia come immediatezza, quello che riesco a cogliere nell’immediato. La scrittura invece è la profondità. E’ però importante che ci sia profondità anche nella fotografia e immediatezza nella scrittura. Li distinguo così.
Quando rientri in Italia, nella tua Emilia, ti rituffi di colpo nel mondo “moderno”. Come si fa a elaborare il passaggio dalla straordinarietà di quei luoghi alla normalità di casa?
I primi anni ho sofferto molto il rientro a casa, perché mi mettevo dalla parte di chi giudica. Ero quindi fredda e distaccata verso il prossimo, ero arrabbiata. Qui viviamo in un mondo ormai assuefatto sia nei gesti che nei sentimenti. Andare in quei luoghi invece mi fa apprezzare come straordinaria l’ordinaria quotidianità. Oggi però sono più serena, torno a casa con l’attitudine di chi racconta e non di chi giudica, mi sento “liberata”. E mi ostino nel cercare di capire perché viviamo in modi così diversi.
La mostra di Roma è stata molto apprezzata e partecipata. Tanti i visitatori illustri, tra cui il direttore di Repubblica Mario Calabresi, l’attrice Ivana Monti, il reporter Franco di Mare, il regista Alberto Sironi, ma anche i giovani studenti della Schola Puerorum della Cappella Musicale Pontificia. Com’è nata l’idea di realizzarla?
Francesca Anfosso, storica dell’arte e gallerista, mi ha intercettata di ritorno da un viaggio in Salvador, ha visto le foto e mi ha proposto una mostra a Roma. E dopo avere ricevuto il sostegno del giornalista Michele Smargiassi e la collaborazione per la selezione delle immagini di Uliano Lucas, ho deciso di lanciarmi.
A proposito di Lucas. Com’è nato il vostro rapporto e quello con Tatiana Agliani?
Ho conosciuto Uliano circa dieci anni fa, nel 2007, in SAT, un’azienda multiutility del distretto ceramico modenese presso cui lavoravo. Lo commissionammo per delle fotografie da inserire in un libro aziendale. Mi disse che gli piaceva come scrivevo e io a lui di come fotografava. A quel punto non ci pensai due volte e gli chiesi di fare un libro insieme. Accettò, incredibilmente, così mi licenziai e andai in Etiopia per un anno. Da quell’esperienza nacque il libro “Scritto sull’acqua”, con editing di Tatiana.
La rassegna romana è stata accompagnata da un libro sotto forma di Moleskine, in cui sintetizzi dieci anni di racconti. Un taccuino fatto di immagini, parole e suoni. Di fianco all’immagine di un bambino in sedia a rotelle troviamo infatti un testo in cui le parole riecheggiano i rumori metallici dei sui cingoli ferrosi.
Esatto. Nel libro c’è un pensiero preciso dietro ogni accostamento delle foto. Oltre all’immediatezza dell’immagine e alla profondità delle parole in alcuni passaggi si può udire anche il suono dei testi, in cui ho deciso di riportare una scrittura letteraria. Spero che i lettori possano comprendere i passaggi di questi momenti che per me rimangono epici.
Prossime tappe?
In questi giorni saremo a Perugia, poi Brandeburgo e Fiorano Modenese.
Hai in mente altri progetti?
Andrò due mesi in Etiopia per raccontare il fenomeno migratorio, dov’è in atto un progetto della Cooperazione allo Sviluppo nell'ambito del Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale, con l’intento di trovare altre vie che non costringano quelle persone a dover lasciare il proprio paese.