SOCIETA'

"Vi racconto la mia Sardegna tra contraddizioni e futuro"

Faccia a faccia con Bachisio Bandinu: l'isola, la sua gente, le molte occasioni mancate e quelle da cogliere per avviare uno sviluppo concreto

di Marcello Floris

Antropologo, sociologo, intellettuale, autore di romanzi, giornalista e docente. Bachisio Bandinu è tutto questo, anche se preferisce la definizione di “insegnante in pensione che pur accetta il soprannome di antropologo creato dai giornalisti”, dice con modestia. In tanti hanno in mente i suoi interventi decisi nei dibattiti culturali che interessano la Sardegna: libero da ideologie, entusiasta nel decantare le virtù dei sardi ma anche fermo nell’evidenziarne i difetti.
Bandinu parla di cooperazione, progettualità, apertura verso l’esterno, capacità di creare ricchezza dalle bellezze del territorio e di trasformare in globali i prodotti locali: idee tutto sommato semplici, che altrove sono state messe in pratica con intelligenza ma che in Sardegna faticano a concretizzarsi. “La cooperazione - dice ad esempio - laddove con difficoltà si è realizzata assomiglia più ad un associazionismo difensivo che a una speranza progettuale e a una organizzazione creativa e propulsiva, capace di innovazione e di investimento riferiti al prodotto. Eppure è del tutto evidente che quanto più è identitario, tanto più il prodotto trova sbocco nel mercato mondiale: l’identità come risorsa”. E ancora: “Dell’ambiente ha resistito un concetto di patrimonio naturalistico, qualcosa di statico; col tempo è maturata l’idea di bene ambientale, più dinamica, ma tarda ad affermarsi quella di risorsa ambientale come valore capace di produrre ricchezza, anche se si fa strada una maggiore consapevolezza, che apre a iniziative incoraggianti”.

Vivere per tanti anni in Lombardia, la regione italiana più  attiva economicamente, ha condizionato le sue posizioni?
Venti anni trascorsi in Lombardia mi hanno permesso di osservare la Sardegna con uno sguardo “da fuori” per un possibile confronto, ma anche per valorizzare cose a cui non davo alcun valore e per cogliere limiti soprattutto sul versante del fare e della fiducia in se stessi. In Lombardia un problema si pone per essere risolto, trionfa una mentalità pragmatica e operativa. In Sardegna si sprecano tempo ed energie per logorarsi in un dibattito: i sardi sono pensatori in eccesso, ma bloccati nell’azione. Un freno è anche la psicologia del “totu o nudda”, del tutto o niente, che si risolve troppo spesso nel niente, dato che il tutto è irrealizzabile.

Dati recenti testimoniano una fuga crescente dei giovani sardi: come legge il fenomeno?
È un fenomeno drammatico. La formazione di questi giovani ha costi senza profitto, si perde un capitale economico e culturale senza un ritorno di nuove conoscenze e di nuovo saper fare. Noi di ‘Fondazione Sardinia’ abbiamo posto il fenomeno dell’emigrazione giovanile culturale come tema di ricerca. Così abbiamo costituito un’associazione, “Tramas de amistade” (con l’omonimo sito). L’obiettivo è creare una relazione tra giovani che studiano e lavorano all’estero, anche in organizzazioni internazionali, e giovani che operano nell’isola. Vogliamo sollecitare progettualità nuove e proposte politico-economiche e culturali. C’è stato qualche risultato, ma impegni individuali, preoccupazioni di lavoro e dispersione nei vari Paesi del mondo non concedono tempo e modalità per relazioni più intense.

Nei suoi scritti spesso affronta il tema del difficile rapporto tra tradizione e innovazione. In particolare nel 1976 scrive, insieme a Gaspare Barbiellini Amidei, Il Re è un feticcio, dove analizza il mondo della pastorizia in relazione alla moderna civiltà dei consumi. È cambiato qualcosa, da allora, in questo rapporto?
Il rapporto fra tradizione e innovazione, in Sardegna, non è avvenuto nella logica di una transizione costruttiva, capace di valorizzare da un lato risorse materiali e conoscitive esistenti adattandole alla nuova forma del tempo, e dall’altro lato di impadronirsi delle istanze dinamiche della modernità. Il cambiamento di mentalità e di costume, a partire dagli anni Sessanta, è dovuto alla cultura di massa e alla merceologia consumistica e pubblicitaria. Insomma, uno sviluppo senza veri benefici. I processi che avrebbero potuto e dovuto portare a una crescita sono giunti come modelli esterni, investimenti di capitali internazionali con esiti di sfruttamento e dispersione di beni ambientali e risorse finanziarie. Io vengo da una famiglia di pastori della Barbagia e ho scritto due libri sul pastoralismo. Purtroppo non è cambiato molto. Mio padre produceva il miglior formaggio del mondo, che moriva nella nostra cantina in attesa del prezzo di piazza imposto dagli industriali caseari. Oggi si combatte per i dieci centesimi del prezzo del latte, quest’anno così basso da mettere in dubbio la sopravvivenza di molte aziende.

Da esperto e appassionato di cultura sarda è comprensibile che intervenga spesso sul tema dell’indipendentismo. Può spiegare il suo punto di vista in proposito?
La mia partecipazione a un dibattito sull’indipendentismo non ha una volontà ideologica, intende invece promuovere una coscienza civile e di soggettività dei sardi per superare una condizione di dipendenza politica, economica e culturale. Ormai tutti ammettono il fallimento o almeno la necessità di un superamento dell’esperienza autonomistica, ma non c’è una proposta convincente per un nuovo modello istituzionale e neppure la volontà politica di un nuovo Statuto e di una nuova visione di Sardegna. Allora, il primo obiettivo è quello di una coscienza identitaria che veda i sardi come soggetti responsabili della propria crescita, padroni delle scelte economiche, interpreti di una specificità linguistica e culturale capace di confrontarsi con altre identità.

Presso l’Università di Aristan - il singolare ateneo ideato dal regista Filippo Martinez - Facoltà di Scienze della Felicità, insegna “Assenza”: il silenzio che predomina nel linguaggio e nel modo di essere dei sardi. Un difetto o una virtù?
Esiste nella tradizione sarda il silenzio come linguaggio, linguaggio profondo che esprime i sentimenti più intensi, legati all’amore e alla morte. Il silenzio regola anche l’atto di parola: la parola esce dalla casa del silenzio, fa il suo giro e ritorna in domo sua, altrimenti si smarrisce lasciando soltanto l’eco. Legato al silenzio è il parlare in suspu, il parlare cifrato, nel gioco del fraintendimento e del nascondimento del senso che è da interpretare. Nella lingua sarda predomina il parlare ellittico, una figura linguistica che contrae il discorso e lo condensa arricchendone il senso. Ma c’è anche il silenzio che è negazione storica della propria parola e della propria lingua. Oggi la questione della lingua e del bilinguismo ha un preciso valore politico e identitario.

Ha nuovi progetti in cantiere?
Da due anni sono impegnato in una ricerca di grande rilevanza: “I giovani sardi e Internet”. Coinvolge più di 5000 studenti delle scuole medie superiori di Cagliari, Sassari, Nuoro, Olbia e Oristano, con l’obiettivo di valutare l’incidenza dei digital media nella vita quotidiana degli studenti. Vogliamo monitorare i tempi di utilizzo degli strumenti informatici per verificare i vantaggi e i rischi dell’esperienza internettiana, ma anche per capire il formarsi dell’identità digitale e il modo in cui è vissuto il rapporto reale-virtuale.

Bandinu è sicuramente un uomo che ama la Sardegna, viste le tante iniziative che ha descritto. Ma è anche arrabbiato con i sardi…
I padri delle patria sarda hanno amato la Sardegna ma non hanno avuto stima dei sardi, non hanno fatto scuola e perciò non hanno avuto eredi. Un pesante difetto politico e una mancanza di fede. Hanno profuso impegno per una Sardegna come avrebbe dovuto essere e come essi la volevano, invece di partire dalla reale condizione dei sardi, accettandone i limiti per superarli. Non sono arrabbiato con i sardi, ne studio la loro identità più nascosta nel tentativo di comprenderla e valorizzarla.