TEMPO LIBERO

Kobe Bryant, i Lakers e l'ultimo abbraccio della sua amata Italia

La storia e le curiosità sul cestista scomparso lo scorso 26 gennaio, cresciuto nel nostro Paese e diventato mito negli Stati Uniti

di Marcello Floris

Oro ai Campionati Americani del 2007, Oro alle Olimpiadi di Pechino del 2008 e di Londra del 2012, 5 campionati NBA, miglior realizzatore di sempre dei Lakers, la squadra dove ha militato per tutta la sua carriera, dal 1996 al 2016. Potremmo andare ancora avanti a elencare i trofei e i record di Kobe Bryant, stella del basket americano con un'infanzia trascorsa in giro per l'Italia. Non si è trattato solo di una fase di passaggio, ma di un legame profondo che ha segnato la sua biografia, come uomo e come professionista.

Nato a Filadelfia il 23 agosto 1978, Bryant era arrivato nella Penisola nel 1984, seguendo insieme a tutta la famiglia il papà Joe, cestista anche lui, ingaggiato dalla Sebastiani Rieti e rimasto per altri sette anni nel Belpaese vestendo anche le maglie di Viola R. Calabria, Olimpia Pistoia e Reggiana.

È proprio a Reggio Emilia, la tappa italiana più lunga di Joe, che Kobe vive gli anni più intensi e più carichi di emozioni, ormai adolescente. Qua stringe le amicizie più profonde, quelle che restano per tutta la vita. Ammise una volta che avrebbe voluto chiudere la carriera in Italia, cosa che non si è mai concretizzata, ma la sua immagine ha contribuito comunque a rendere popolare una disciplina che da noi è soffocata dallo sport nazionale, il calcio. Non solo amicizie, Bryant a Reggio Emilia si è formato anche come atleta: anni importantissimi che gli consentiranno in futuro di avere "un incredibile vantaggio perché avevo imparato i fondamentali, - ammise lui stesso - non come fare il giocoliere, ma come muovermi senza palla e usare i blocchi, utilizzare entrambe le mani, passare la palla in maniera efficace".

Da Reggio Emilia è arrivato fino a Los Angeles senza passare per l'Università, come vorrebbe la tradizione,  per affermarsi come star internazionale, che significa, come lui stesso disse durante una delle sue visite nella città del Tricolore, che "ogni sogno è possibile".

Torna negli Stati Uniti nel 1991 che ancora deve diventare americano al cento per cento: gli serve perfezionare l'inglese perché la sua prima lingua è l'italiano, deve riabituarsi ai ritmi e alla società a stelle e strisce, imparare il modo di giocare e concepire il basket come si fa da quelle parti perché presto appare chiaro che ha le qualità giuste per seguire le orme paterne e andare anche oltre. I risultati non si fanno attendere e a fine carriera il posto nella Hall of Fame – ufficializzato nelle scorse settimane - tra i più forti di tutti i tempi, è assicurato. C'ero anche io a vederlo in un match dei playoff nell'aprile del 2010 a Oklahoma City, l'ultimo anno in cui Kobe ha vinto il titolo NBA, un ricordo che oggi assume ancora più valore. Non sapevo (e ancora oggi non so) molto di basket, ma imparai proprio lì che Kobe Bryant andava sempre e comunque applaudito perché era un professionista esemplare, amato dal pubblico in America come in Italia. Me lo dissero non i suoi supporter, ma i tifosi avversari dei "Thunder": negli States lo sport di alto livello è entertainment vero e proprio, la gente vive le gare senza tensione, per puro svago, apprezza i numeri spettacolari qualunque sia la maglia che si porta indosso. Bryant era infatti un uomo che divertiva il pubblico ovunque si presentasse, in campo ma anche attraverso la sua simpatia e i suoi sorrisi, il piacere di stare con la gente, l'umiltà che un vero leader ha sempre cucita addosso. Vent'anni nei Lakers, unico giocatore dell'NBA fedele alla maglia per così tanto tempo, numeri che non torniamo a ripetere ma che ci basta sapere che sono da vera leggenda. 

Gli endorsement nel mondo dell'NBA non vengono elargiti con troppa generosità, ma Bryant se li è guadagnati tutti, uno per uno. Da "Magic" Jhonson ("il migliore ad aver indossato la maglia dei Lakers"), a Michael Jordan ("tra i primi dieci di sempre nel ruolo di guardia"), e così via, passando da LeBron James a Dirk Nowitski, da Gregg Popovich a Steph Curry: tutti hanno riconosciuto a Kobe qualità da top player.

Ogni tanto faceva visita alla sua cara Italia, andava a stringere mani, dispensare autografi e a parlare ai giovani sportivi che, come era toccato a lui, coltivano un sogno nel cassetto. A bilancio, oltre a una serie gloriosa di successi, c'è anche una vita privata complessa e dibattuta, ma pure tante iniziative benefiche, battaglie in favore dello sport femminile e premi anche fuori dal rettangolo di gioco. Bryant è stato infatti il primo cestista ad aver vinto un Oscar cinematografico, nel 2017, per il cortometraggio d'animazione Dear Basketball, scritto da lui stesso e basato sulla lettera di addio al suo sport del cuore nel 2016, come avrebbe fatto un innamorato costretto a non rivedere più la sua amata: un finale da Hollywood, coronato dalla festa finale allo Staples Center di Los Angeles, condito però anche di semplicità e modestia. Ha dichiarato a tutti di essere in fondo sempre quel "bambino con i calzini arrotolati, bidone della spazzatura nell'angolo" - scrive nella lettera -, che voleva solo far canestro in tutti i parquet del mondo.

La vita di Kobe è densa di tanti altri aneddoti e curiosità, proprio come ogni star che si rispetti, a iniziare dal suo nome, che i genitori presero dall'insegna di un ristorante giapponese di Filadelfia dove mangiavano quando erano in attesa della sua nascita, fino al suo soprannome, Black Mamba, che lui stesso si scelse ispirandosi alla figura di un temibile rettile citato nel film Kill Bill - Volume 2 di Quentin Tarantino.

Ha voluto far conoscere il nostro Paese alle figlie anche se "non posso neppure spiegargli le belle cose che ho vissuto io in Italia - aveva detto qualche anno fa - perché non riuscirebbero a comprendermi. Non l'hanno mai visto, non possono viverlo e non se ne rendono conto".

Finita l'attività da professionista, Bryant si era ripromesso di tornare ancora più spesso nei luoghi della sua infanzia. Tra i suoi progetti, quello di creare da noi una scuola basket che permettesse ai ragazzi di diventare giocatori professionisti ma anche di specializzarsi in lavori diversi, come l'esperto di marketing. Non potrà essere Kobe Bryant a realizzare questo disegno, scomparso tragicamente il 26 gennaio in un incidente con l'elicottero in California, dove viaggiava insieme alla figlia Gianna e ad altre sei persone. Il mondo dello sport ha celebrato la sua memoria in ogni campo da gioco, in ogni televisione, in ogni angolo del web. Tanti campioni hanno rievocato i momenti vissuti insieme a lui: la foto insieme, la stretta di mano, la lunga chiacchierata; memorie vive anche tra i tanti gli amici americani e italiani. Come "italiano" aveva una squadra del cuore anche nel calcio, il Milan, che nella partita successiva alla sua morte ha spento i riflettori dello stadio per mandare un lungo video emozionale in omaggio al campione. Cinque anni fa con la sua lettera disse addio al basket. Ora il basket ha dovuto dire addio a lui, mantenendo nel cassetto dei ricordi la sua voglia di fare, le sue idee, il suo amore viscerale per lo sport, la sua grinta, la sua allegria.

Il ricordo di Andrea Menozzi, l'ultimo coach Italiano di Kobe: 'Sognava già la NBA'

Andrea Menozzi è stato l'allenatore di Kobe Bryant alla Pallacanestro Reggiana, per la quale segue ancora il settore giovanile. Kobe si riferiva soprattutto ai suoi insegnamenti quando diceva di aver imparato le basi del basket in Italia. Menozzi non ha mai dimenticato il profilo di "quel bambino che seguiva sempre le gare di papà Joe: prima delle partite e durante gli intervalli era sempre con una palla in mano che tirava a canestro sul parquet" - rammenta Menozzi.

Kobe era rimasto molto legato all'Italia ma con Reggio Emilia ha avuto un legame speciale. Come mai?

"L'Italia è sempre rimasta nel cuore di Bryant. Anche nel 2016 aveva voluto fare una visita qua da noi, era il mondo legato alla sua infanzia. A Reggio era già grandicello, più consapevole di cosa gli stesse accadendo intorno, qui ha mantenuto legami importanti con i suoi compagni che sono rimasti suoi amici anche quando è diventato adulto".

Che ragazzino era Kobe Bryant?

"Era sicuramente vivace, molto motivato e focalizzato sull'attività sportiva: affrontava gli impegni agonistici con molta serietà pur essendo solo un ragazzino. Sognava sin da allora di poter giocare un giorno in NBA". 

Kobe tornava spesso in Italia. Lei ha mai avuto occasione di andare a vederlo in America?

"No, però dopo che è andato via ho continuato a seguirlo, soprattutto quando è arrivato ai vertici. È stato emozionante vederlo in tv in mezzo a tutto quel pubblico e ripensare alla strada che ha fatto quel ragazzo, partito dai nostri campi e arrivato così in alto".

Lei si occupa da tantissimi anni in prevalenza di giovani. C'è interesse tra le nuove generazioni per la pallacanestro?

"Io vedo un coinvolgimento vivo per questo sport, ma non sempre qua riusciamo a capitalizzare i potenziali agonistici. Molti ragazzi conoscono il basket NBA, non altrettanto bene quella che è l'attività professionistica italiana. Questo è un peccato, ma negli ultimi anni vedo comunque segnali di maggior interesse".

Campioni come Kobe hanno contribuito alla diffusione del basket in Italia?

"Sicuramente. Tutti i grandi campioni in tutti gli sport sono ambasciatori della diffusione della propria disciplina. Questo vale ancora di più per Kobe in riferimento all'Italia, perché lui si è sempre sentito con una doppia identità, italiana e americana, e questo ha contribuito a renderlo più popolare di altri nel nostro Paese e con lui anche l'interesse per il basket ne ha giovato".

L'ambiente, la cultura e i sistemi organizzativi dello sport giovanile in America sono molto diversi dai nostri. Che opinione ne ha? Cosa apprezza del contesto italiano e cosa importerebbe dagli Stati Uniti?

"Il sistema americano e quello europeo e italiano nello specifico sono certamente molto diversi: al di sotto del livello professionistico negli Stati Uniti si pratica sport all'interno delle strutture scolastiche, mentre da noi questo compito è affidato alle società dilettantistiche che si tengono in piedi in prevalenza grazie al volontariato: questa è una differenza sostanziale. Degli Stati Uniti apprezzo la cultura sportiva che non contempla eccessi ed esasperazioni che invece noi fatichiamo a capire, anche a livello di tifoserie. In Italia, però, almeno per quanto riguarda la pallacanestro, dal punto di vista della metodologia didattica abbiamo qualche capacità di livello un po' più alto rispetto a loro, e questo anche Kobe lo riconosceva".